Racconti di Daniela Federica


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche

Leggi le poesie di Daniela Federica

Non lasciate i vostri cani incustoditi
Era la mattina di Natale. Sergio e Daniela erano ancora a letto, quando sentirono dei rumori provenire dalla sala.
Silenziosamente scesero le scale e piano piano si nascosero dietro la porta. Davanti al caminetto c’erano Kikka e Alex, che a passi svelti si stavano avvicinando all’angolo dove c’era un gigantesco albero di Natale ricco di fronzoli e lucine multicolori. I due bambini, una di 5 anni l’altro di 4, si guardarono in faccia, poi Kikka disse al fratellino:
“Vedi che siamo stati cattivi!!! Babbo Natale non ci ha portato il cagnolino che avevamo chiesto”.
I due bambini, senza nemmeno aprire i pacchettini che c’erano sotto l’albero, stavano tornando a letto, tutti e due con il muso lungo e le lacrime agli occhi. Allora Daniela e Sergio, che in un primo momento avevano un sorriso sornione sotto i baffi, vedendo i bambini in quello stato di prostrazione, uscirono dal loro nascondiglio.
Su coraggio bambini, sembra che vi è caduto il tetto sulla testa. Ma non aprite i regali? disse Sergio con fare allegro tipico della mattina di Natale.
Intanto Daniela si accostò allo stereo e mise un Cd con delle belle canzoncine natalizie.
“Bambini, questa notte per sbaglio, mentre scendevo per attizzare il fuoco del camino, mi sono imbattuto in Babbo Natale”. Subito lo sguardo dei due bambini si illuminò per incanto……
“Hai visto Babbo Natale? “ dissero in coro.
“Sì bambini. Gli ho pure parlato e mi ha suggerito di fare il giochino dell’acqua e del fuoco….vedrete che sorpresa meravigliosa troverete”.
Il gioco ebbe inizio e i bambini incominciarono ad andare a frugare in ogni dove.
“No bambini, siete in alto mare” diceva Sergio.
“Forza bambini siete quasi vicini…fuochino , fuocherello…fuoco”
Con il gioco erano arrivati al bagno di servizio. Quando ne aprirono la porta, ai loro occhi comparve un minuscolo battuffolino fulvo. Una piccolissima cagnolina di razza pinscher uscì trotterellando dal bagno e i bambini subito dietro, tentando invano di prenderla. La chiamarono Briciola. Daniela avrebbe voluto abituarla a dormire in tinello, ma la piccola, come veniva spenta la luce, si metteva a guaire. Allora Daniela preparò un bel cuscino morbido e lo sistemò vicino al letto, in modo che, stando distesa sul di esso, la potesse accarezzare e tranquillizzare. Briciola era diventata l’ombra di tutti, ma soprattutto di Daniela che, dopo un incidente della piccola che le causò la rottura di una zampina, se la portò in braccio per 43 giorni. Briciola, vivace e vispa e molto furbetta, con la scusa della zampina rotta era riuscita a trovare un posticino nel letto proprio tra Daniela e Sergio.
Tutte le volte che il marito allungava una mano per accarezzare la moglie, la cagnolina o ringhiava o addirittura dava dei piccoli morsi al suo padrone (pinscher vuole dire appunto pizzicatore- morsicatore). Quando la famigliola usciva in macchina, Briciola la lasciavano a casa, magari sul lettone di mamma e papà con un cagnolino di peluche come compagno su cui la mamma aveva spruzzato il suo profumo, così che la cagnolina si sentisse meno sola. Un giorno però, in cui il sole era ben coperto dalle nuvole, decisero di portarla con loro e di lasciarla temporaneamente in macchina, mentre loro entravano a fare la spesa in un grande magazzino in cui non era permesso l’accesso ai cani. Era la prima volta che portavano con loro Briciola, perché il veterinario più d’una volta li aveva messi in guardia sul fatto che in città c’era una banda che rapiva cagnolini dalle automobili per scopi illegali. Alcuni venivano venduti a case farmaceutiche e cosmetiche per la sperimentazione di nuovi farmaci o belletti per le signore, altri venivano venduti alla malavita locale ed estera per l’addestramento dei cani da combattimento. Come sempre accade, spesso la gente dice: sì va beh, ma queste cose non capiteranno proprio a noi. Così fecero anche i signori Daniela e Sergio. Arrivati al supermercato, pensando che prima o poi sarebbe uscito un bel sole caldo, non volendo far arrostire in macchina la piccola cagnolina, lasciarono l’auto nel parcheggio sotterraneo.
La famigliola scese dalla macchina lasciando un finestrino leggermente aperto perchè non mancasse l’aria a Briciola. La piccolina era riuscita a saltare sulla copertura del copribagagli e lì aspettava i suoi padroni, abbaiando tutte le volte che vedeva avvicinarsi qualcuno.
Il parcheggio era semideserto e un ladruncolo si avvicinò alla macchina. La cagnolina abbaiava, ma al ladro non gliene importava più di tanto, così, dopo aver aperto la portiera e dopo aver messo in moto la macchina, schizzò via come un lampo.
Quando la famigliola ritornò nel parcheggio la macchina era ormai lontana, ma il loro pensiero non era per la vettura scomparsa, bensì per Briciola. I bambini piangevano a dirotto e Daniela riusciva a stento a trattenere le lacrime. Col cellulare chiamarono un parente che venne a prenderli e poi volarono dai carabinieri per la denuncia. Intanto il ladruncolo aveva portato la macchina in un deposito da dove le vetture rubate sarebbero partite per oltralpe. La cagnolina invece fu presa da un tale che la portò in un cascinale nei pressi dell’autostrada, in cui venivano addestrati i cani da combattimento. La piccola avrebbe fatto le veci di un coniglio, aumentando in quei cani la voglia di sangue.
Però fu molto fortunata, perché quel posto era sotto osservazione da parte delle forze dell’ordine già da parecchi mesi, a seguito della segnalazione dei contadini che aravano i campi lì attorno, che avevano rinvenuto due cani semisbranati. Proprio quello stesso giorno una soffiata aveva avvisato i militi che ci sarebbe stata una riunione con la lotta di tre coppie di cani, dentro il casale stesso.
Il carabinieri arrivarono nei pressi della costruzione a luci spente e poi si appostarono in modo che nessuno dei malviventi potesse scappare. Si sentivano voci di gente dall’accento tipicamente meridionale e slavo che stavano raccogliendo i soldi, quando le forze dell’ordine fecero l’irruzione nel casale. Qualche scommettitore tentò di fuggire dal retro dell’edificio, ma fu subito preso. Quando tutti furono arrestati e sistemati sui furgoni cellulari, alcuni carabinieri fecero il giro del casale. In un pollaio privo di galline trovarono circa tredici cani di varie taglie. Alcuni di loro avevano il tatuaggio ben in vista, di altri si vedeva chiaramente che erano dei randagi. Tra quei cani c’era la piccola Briciola, che spaventatissima si era rifugiata in un angolo. Un milite la vide, le andò vicino e, dopo averla presa tra le braccia, l’avvolse in una copertina di fortuna tenendosela stretta, fino a quando non arrivarono al centro di recupero animali maltrattati. Briciola poche settimane prima era stata tatuata sulle orecchie e il tatuaggio era visibile come un lampione acceso, tanto era ben scritto e chiaro, così, grazie ad esso, vennero rintracciati i padroni e la piccola tornò a saltellare nella sua bella casa. Non vi dico la felicità dei padroni che da quel giorno non l’abbandonarono nemmeno per un attimo. Le insegnarono persino a fare i bisognini in casa come fanno i gatti.            

Un amore proibito
Anche quell’anno era arrivata finalmente l’estate. La famiglia Leone Valstorta, famiglia nobile decaduta di un piccolo paese in un angolo sperduto dell’Appennino, ma residente in centro a Milano, non aveva ancora deciso dove andare a passare il periodo estivo. Era mezzogiorno ed erano tutti riuniti a tavola. Il padre Ercole, la madre Vanna, il figlio Luca e la figlia Chiara, come tutti gli anni passati, stavano esaminando vivacemente sulla scelta del luogo di villeggiatura. Il padre, allergico al sole e amante di siti archeologici, avrebbe voluto andare a Pompei. La signora Vanna aveva lanciato la proposta di fare una bella crociera alle isole greche. Il figlio, da buon hippy, avrebbe voluto convincere la famiglia a recarsi in un monastero Buddista. Alla figlia non interessava minimamente dove andare. A lei bastava non passare a casa il mese d’agosto. Non riuscivano proprio a mettersi d’accordo, quando squillò il telefono. Vedendo che nessuno si alzava da tavola, toccò al signor Ercole andare a rispondere.

“Qui famiglia Leone Valstorta. Chi parla?

“Ciao Ercole. Sono tuo cugino Mario. Ti ho telefonato per sapere se avevate deciso dove andare in agosto. Rosa e Martina andranno a visitare la Palestina, con un viaggio organizzato da un’associazione religiosa di cui non ricordo il nome. Poi con un’altra comitiva, diciamo laica, andranno in Egitto. Io non me la sento di accompagnarle, sono troppo vecchio e poi quando vai con i preti, c’è sempre da camminare e pregare. Perciò mi sono chiesto se, visto che la casa è praticamente libera, volete venire a farmi compagnia qui a Roma”

Il signor Ercole aveva tirato un sospiro di sollievo. Anche per quelle ferie aveva trovato un posto dove andare e perciò non se lo lasciò ripetere due volte.
”Certamente che veniamo! Proprio adesso stavamo vagliando le varie proposte del mio clan. Ti ringrazio! Penso che arriveremo alla stazione Termini il giorno tre. L’uno e il due, chissà che caos di gente ci sarà in Stazione Centrale e di conseguenza sui treni,visto che quei due giorni cadono uno in sabato e uno in domenica”.

Tornato a sedere a tavola, sapeva già in partenza di dover combattere una bella battaglia con i suoi. Stava già pensando cosa dir loro, quando sua moglie gli chiese chi aveva telefonato.

La signora Vanna era la tipica matriarca. In casa o si faceva quello che voleva lei oppure erano guai. Il signor Ercole, un uomo magro basso, con un aspetto da piccolo scrivano fiorentino, pur essendo il direttore di una grossa multinazionale americana con filiale a Milano, era succube della moglie. Già incominciava a sudare, non per il caldo, ma per la solfa che avrebbe subito fino al giorno della loro partenza per Roma.

“Era Mario. Ci ha invitati a Roma e io gli ho detto di si”.

La signora Vanna cambiò espressione e colore del viso. Da un rosa tenue diventò paonazza per la rabbia che da lì a poco le sarebbe esplosa come il tappo di un vulcano.

“Che cosa ci andiamo a fare a Roma, e poi da tuo cugino? Io passo tutto l’anno in questa casa a fare la serva a voi e in agosto voglio incontrare gente nuova e voglio divertirmi. Tu sei sempre il solito egoista, pensi solo a te e alle rovine millenari. Per forza, siete proprio uguali in tutto e per tutto, ruderi loro, uomo rudere tu. Se dovesse crollare il Colosseo, tu saresti il suo degno sostituto”.

In realtà la moglie in casa lavorava ben poco. I lavori domestici li eseguiva Makeba, una donna di colore che la famiglia si era portata con sé in Italia dopo un periodo passato in Congo.

Quando la moglie sclerava a quel modo, al signor Ercole non restava altro che prendere dal tavolino della sala un bel sigaro toscano. Pur potendosi permettere marche migliori, lui comperava sempre quelli, in onore di suo padre. Dopo di che si metteva cappello e giacca e se ne andava al bar dagli amici.

Il signor Ercole non era un rudere, malgrado il suo aspetto minuto e alla mano era un uomo intelligente, istruito, fine e, se lo si sentiva parlare, anche molto spiritoso. Nella multinazionale era molto apprezzato come dirigente e, appunto per la sua cultura e la sua spiritosaggine, era sempre circondato da belle donne. Ercole, non era così stupido come pensava la moglie e, all’insaputa della medesima, due o tre impiegate se le era già fatte.


Finalmente arrivò il giorno della partenza. Venne chiamato un taxi, perché nessuno della famiglia aveva la patente, nemmeno Ercole. Sebbene avesse potuto guidare, non si fidava più, perché la sua vista non era perfetta.

Erano in prima classe e avevano tutto lo scompartimento per loro. I sedili erano in velluto rosso amaranto e gli appoggiatesta bianchi. Vicino al finestrino si poteva sollevare un piccolo tavolino sul quale Chiara e suo fratello si misero a giocare a carte. Il signor Ercole leggeva un giornale che aveva preso in stazione e la signora Vanna aveva tolto dalla borsa un lavoro a maglia incominciato due settimane prima. A mano a mano che i minuti e le ore passavano, le fermate si susseguivano…..Piacenza….Parma….Reggio… Modena…Bologna….e via discorrendo fino alla stazione Termini di Roma.

Usciti dalla stazione, presero un taxi, che li condusse alla residenza del cugino in via Biagio Pallai, poco distante della circonvallazione Gianicolense.

Mario era uscito a fare la spesa e loro dovettero stare una bella mezzora fuori dalla porta ad aspettarlo.

I genitori erano così stanchi del viaggio, che quel pomeriggio preferirono passarlo sulla veranda. I due ragazzi invece decisero di farsi un giretto perlustrativo nella zona. Luca per vedere se riusciva a rimediare una ragazza decente e Chiara per acchiappare un bel ragazzo romano. Non ne poteva più di mettersi in mostra, sculettando davanti agli occhi sgranati di qualche bellimbusto della capitale. Il sole era cocente e in giro non c’era un’anima

“Ma dove stanno tutti i romani?” disse Luca.

Chiara voleva comperarsi lo smalto per le unghie che aveva dimenticato a casa e voleva anche qualcosa per schiarire i capelli che in verità erano già di un bel biondo, ma lei li voleva ancora più chiari. Per grazia ricevuta incontrarono una signora. La fermarono e le chiesero dove avrebbero potuto trovare dei negozi.

“Negozi? Ma i negozi aprono alle sei” rispose la donna.

Luca e Chiara, non fecero commenti, ma si guardarono in faccia con aria interrogativa e beffarda.

Quando la signora si fu allontanata:

“Non mi ricordavo che qui non siamo a Milano e che se la prendono tutti comoda”

Da una finestra con le persiane leggermente aperte si sentiva una canzone di Albano

“Quando il sooole torneràaaa…. E nel sole..ioo verròoo da teee… Unn altro uomo troverai in me…”

Era bella quella canzone, ma a Chiara non piaceva Albano e, guardando il fratello fece una faccia schifata e poi alzando la mano la rigirò con il pollice rivolto verso il basso, come per dire buttiamolo ai leoni, visto che essendo a Roma, era pure in tema. Avevano girato parecchio, ma niente belle romanine né bei fusti romani. I due ragazzi delusi ritornarono a casa dello zio e vi entrarono brontolando.

“Certamente che come inizio di vacanza non è proprio male. In giro non c’è neanche una mosca. Ci divertiremo un sacco quest’anno….Sì proprio un sacco!!!!”.

“Ma ragazzi, non avete mai sentito parlare delle belle notti romane?”

“Sì! Notti romane, roba per matusa rimbambiti. Noi vogliamo gioventù, magari in spiaggia con il mangiadischi, un fuoco e tutti che praticano l’amore libero….questo è quello che vogliamo” disse Luca.

“Va la cretino, ma ti rendi conto che cavolo dici? Non raccontarne più di fesserie, sennò papà e soprattutto mamma non ci lasciano più uscire” ribatté Chiara.

Quella sera il discorso terminò così.

Inaspettatamente la moglie e la figlia di Mario furono costrette a rientrare in Italia, perché la ragazza aveva bevuto dell’acqua contaminata e non riusciva a farsi passare la dissenteria. Così la famiglia Leone Valstorta fu costretta a trovarsi una nuova sistemazione. Andarono ad alloggiare in una residenza estiva gestita dalle suore. Presero dimora in una dependance, che un tempo fungeva da guardiola per il custode. Era una villettina con bagno, composta da due locali. In uno c’era un grande armadio e un letto matrimoniale in cui dormivano il signor Ercole e la moglie e nell’alta stanza, piuttosto piccola, c’erano un letto a castello in cui si accomodarono Chiara e il fratello, un tavolinetto e un comodino. Fuori, sotto a un pergolato di glicine e uva americana, c’erano un tavolo in midollino e quattro poltroncine ricoperte da bei cuscini variopinti. Tutto attorno, a mo’ di recinzione, grossi vasi rettangolari pieni di gerani. Per mangiare facevano un pezzetto a piedi, attraversando il giardino per raggiungere la sala da pranzo. I ragazzi non si sentivano a loro agio, perché intorno a loro c’erano preti, cardinali e vescovi di tutte le razze e nazioni. A loro pareva di essere chiusi in gabbia e camminavano come se fossero due “santificetur”. Avevano voglia di una botta di vita, ma fino a quel momento tutto era monotonia. Mentre stavano cenando, seduti a dei tavoli vicino a loro sentirono persone esprimersi in un chiaro dialetto bergamasco. La signora Vanna, impicciona e alquanto pettegola, era nata nella provincia di Bergamo, sentendo il suo dialetto natale, si alzò dal tavolo e si avvicinò alla comitiva

“Ho sentito che parlavate bergamasco e mi sono permessa di venirvi a salutare, perché anch’io sono di quelle parti. Da dove venite precisamente? Io sono di Caravaggio”.

Da uno dei tavoli si alzò un signore con un paio di pantaloni blu e una bella polo azzurra. “Buonasera, Io sono padre Adriano.”

“Buonasera. Scusi, vestito così mai avrei pensato che lei fosse un prete”.

Mentre i due parlavano, Chiara aveva buttato l’occhio proprio al tavolo dove si era alzato quell’uomo distinto. Vi erano altre tre persone, una delle quali la colpì per il colore degli occhi che per un attimo si erano incrociati con i suoi. Lei lo stava ancora guardando, ma il ragazzo aveva timidamente abbassato lo sguardo sul piatto che aveva davanti. Per tutto il tempo in cui rimasero nella sala da pranzo, la giovane non faceva altro che lanciare sguardi eloquenti a quel giovane dagli occhi blu. La mattina seguente la comitiva non era a fare colazione e Chiara era molto delusa, avrebbe voluto rivedere quegli occhi blu.

L’occasione le si presentò il giorno seguente. I suoi erano già a pranzo e lei aveva fatto tardi, perché, sentendosi molto accaldata, aveva voluto rinfrescarsi con una doccia, Stava correndo come una pazza per arrivare in tempo per la prima portata e, girando l’angolo, andò a sbattere con la testa proprio sulla fronte del ragazzo bergamasco. Quel contatto, sebbene alquanto doloroso, l’aveva intrigata parecchio. Il profumo che il giovane aveva addosso le era entrato nelle narici e l’aveva pervasa tutta.

“Ciao. Che male mi sono fatta…..caspita che testa dura hai. Ho sentito che siete bergamaschi, che ci fate di bello a Roma?”

“Tranne me che ho 30 anni, gli altri sono della classe del 1951 e sono qui per una vacanza prima del servizio di leva. In questi giorni visitiamo Roma e andremo all’udienza che il Papa terrà nella sua residenza di Castel Gandolfo. Poi attraverseremo l’Italia, andremo a Pesaro, Urbino e Gradara. Faremo poi tutta la costa adriatica, fermandoci in tutte le località alla moda come Riccione Rimini e via discorrendo, fino a Venezia e poi Bergamo”

“Caspita che bel programmino. Noi siamo arrivati a Roma quattro giorni fa e fino a questo momento ci siamo annoiati da morire. Mio padre ha voluto che andassimo a vedere i ruderi. Abbiamo visitato le Fosse Ardeatine, le catacombe di S. Callisto e San Sebastiano e la tomba di Cecilia Metella, e siamo andati a fare un tour panoramico con le tipiche carrozzelle romane”.

Il ragazzo con fare spazientito guardò l’orologio.

“Scusa devo andare…Don Adriano non vuole che si faccia tardi”.

Stava già correndo, quando Chiara gli urlò:

“Ehi tu….dimmi almeno come ti chiami!”

“Mi chiamo Daniele….ciao!”

Chiara era una ragazza molto emancipata e se ne faceva un baffo delle regole che vigevano a quell’epoca. Quando a lei piaceva un ragazzo, metteva tutta se stessa per mettergli il cappio intorno al collo, dopo di che se lo portava anche a letto. E quel giovane bergamasco le piaceva, e anche molto. Mentre si stava dirigendo verso la sala da pranzo, pensava a come poter fare per raggiungere il suo scopo. Era bella e prosperosa. Capelli lunghi e di color oro. Quello era il suo colore naturale, non avendo trovato niente per schiarirli. Pur avendo una madre con gli occhi chiari, aveva preso quelli del padre di un bel color marrone, quasi nero. Essendo nel pieno boom delle minigonne, anche lei le indossava e tutte le volte che passava in mezzo a quei preti, immancabilmente qualcuno di loro le faceva la paternale, ma lei, da quello spirito libero che era, se ne fregava.

Suo padre e sua madre stavano sempre a parlare con don Adriano e grazie a questo il giorno dopo comunicarono ai figli questa, per lei, magnifica notizia:

“Ragazzi, da domani seguiremo la comitiva dei coscritti in tutti i loro spostamenti. Don Adriano non essendo pratico di Roma e vedendo che io come guida turistica sono un asso, vuole che andiamo con loro”.

Chiara non stava più nella pelle. Avendo tanto tempo da passare con Daniele, sicuramente sarebbe riuscita ad ottenere quello che voleva.

Il mattino seguente, per accontentare tutti quei giovani, don Adriano pensò di andare a fare una puntatina al mare e precisamente a Castel Fusano.

Come i ragazzi arrivarono in spiaggia si tuffarono subito in acqua e Chiara, pur sapendo nuotare benissimo, avvicinandosi a Daniele gli disse:

“Dai, per piacere, mi tieni per le spalle in modo che io possa imparare a nuotare sul dorso”. Dopo dieci minuti che il ragazzo la reggeva, da quella furbina che era fece finta di affogare. La scusa era perfetta per aggrapparsi al collo dell’ ingenuo ed avvicinarsi al petto del giovane con il suo seno, che lei senza farsi accorgere aveva leggermente scoperto.

Poi, mostrandosi indifesa e spaventata, lo strinse ancora di più a sé. La prima mossa l’aveva fatta, ma non le bastava. Allora da vera gatta, incominciò con l’appoggiare il suo indice sul volto di Daniele e con un tocco delicato passò prima sul contorno del suo viso, poi su quello degli occhi ed infine sulla bocca. Mentre lo faceva le uscirono queste parole:

“Tu non puoi nemmeno immaginare che voglia ho di baciarti”. Poi repentina avvicinò la sua bocca a quella del ragazzo e con la velocità di un serpente nel momento in cui attacca, gli infilò la lingua in bocca. Al giovane, non essendo di ghiaccio, non restò altro che rispondere a quella provocazione.

No, nemmeno quel bacio le sarebbe bastato. Lei voleva o tutto o niente e per questo le sue carezze si fecero più provocanti, così sensuali ed erotiche che inevitabilmente i due finirono con il fare l’amore in mare. La sua era iniziata come una delle solite battute di caccia, ma quel biondino dagli occhi blu le era entrato nel sangue e più i giorni passavano e più lei non ne poteva fare a meno. Daniele però, quando la vedeva arrivare, cercava i tutti i modi di evitarla. Era forse questo che la attraeva ancora di più e la spingeva a cercare modi nuovi per poter fare l’amore con lui. Infatti qualche giorno dopo, sempre con i suoi metodi da cagna in calore, mentre i suoi genitori erano andati a prendere un gelato nei pressi di S.Pietro, era riuscita a portarselo a letto un’altra volta e poi ce ne furono altre. Lei però non faceva più sesso solo per il gusto di farlo, lei si era veramente innamorata. Si era innamorata, ma Daniele la evitava come la peste e tutte le volte che la incrociava era sempre accompagnato da don Adriano. Eppure nei loro momenti intimi la passione non mancava, le parole d’amore non mancavano, la voglia di non separarsi era prepotentemente viva tra loro. Chiara si chiedeva e continuava a chiedersi perché il suo ragazzo, sì il suo ragazzo, perché tutti quegli attimi d’amore le avevano dato la certezza di ciò, ora la evitava in quel modo. Il pomeriggio della partenza per il tour in Umbria, ecco finalmente Daniele solo seduto a un tavolo nel giardino dell’albergo.

“Daniele…..ho voglia di stare con te, ho voglia di essere coccolata tra le tue braccia…..perché mi eviti? Non lo capisci quanto ti voglio bene e quanto ho bisogno della tua presenza costante. In questo periodo ho imparato ad amarti”

“Chiara….lasciami in pace. Ho sbagliato con te. Non dovevo illuderti in questo modo. In fondo sono stato un mascalzone, ma tu mi hai provocato. Chiara, noi non avremo mai un futuro, perché io sono un PRETE”.


Un prete? A lei, così spregiudicata, che le importava se quel ragazzo era un prete? Nei suoi 20 anni di vita nessuno, ma proprio nessuno, era riuscito a domarla, sebbene fosse stata educata da una madre dal pugno di ferro. Il suo motto era “Volli, sempre volli, fortissimamente volli - come lo scoglio infrango, come l’onda travolgo”. Quando si fissava di ottenere una cosa, era sicurissima di raggiungerla anche a qualsiasi costo.

Ora poi era diventata per lei una ragione di stato. Daniele non era più solo un’avventura come tante altre. Lei ora, ancora una volta, credeva di amare sinceramente un uomo. Amava anche se stessa e, per soddisfare quell’amore proibito, era pronta ad andare contro le leggi di Dio.

Era così sicura di sé, da sentirsi più importante e potente dell’Essere Supremo.

Daniele la fissava con occhi pieni di disperazione. Una che ama realmente, in quegli occhi avrebbe saputo leggere e avrebbe saputo capire che i momenti di leggerezza dell’uomo erano dovuti alla suo imporsi come donna poco responsabile. Lei lo aveva sottomesso con i suoi seni e le sue curve mozzafiato e non gli aveva lasciato neppure il tempo di dirle che era un prete. Daniele era un sacerdote, ma anche un uomo, e, come tale, aveva tutti i difetti e le fragilità degli esseri umani.

Dal primo giorno del loro tour in Umbria, Chiara non era più riuscita a stare sola con il suo prete. E’ logico che una comitiva con dei sacerdoti, quando va in Umbria, abbia anche come meta Assisi. Così fu anche per loro. Presero alloggio in un convento francescano ed a ogni persona venne assegnata una celletta.

Era una settimana che Chiara si rodeva, per il fatto che non aveva più potuto avere il benché minimo contatto con Daniele. Proprio la sera del loro arrivo ad Assisi, lo vide uscire dalla sua celletta senza chiudere con la chiave. Lasciò che si allontanasse e poi entrò in quel povero alloggio. Aspettò seduta sul letto, fino quando non sentì il sopraggiungere di alcuni passi. Allora si nascose nell’armadio che, a causa di una sola notte di permanenza in quel posto, era rimasto vuoto. Dopo che Daniele fu entrato e solo dopo aver sentito chiudere la porta a chiave, si decise ad uscire dal suo nascondiglio. Indossava un vestitino corto e molto trasparente, sebbene fosse in un convento e sebbene per rispetto a quel luogo, le avessero già chiesto di coprirsi. Avvicinatasi a Daniele con l’arte della più maliarda delle maliarde, lo indusse a cedere ancora una volta al suo volere. Chiara era troppo bella e lui, sebbene ci mettesse tutta la forza d’animo in suo possesso, non era riuscito ad allontanarsi da lei. Era notte inoltrata, quando la ragazza andò a dormire nella sua stanzetta del convento.

Suo fratello Luca la conosceva bene e spesso non condivideva il suo comportamento, sebbene fosse un predicatore dell’amore libero. Amore libero sì, ma non con un sacerdote. Sacerdoti e suore erano categorie intoccabili e inviolabili. Il ragazzo era nella celletta di Chiara, quando lei rientrò alle due di notte.

“Dove sei stata? Papà e mamma ti hanno cercata dappertutto. Io avevo capito le tue intenzioni già dalla prima sera del nostro soggiorno nell’albergo delle suore, perché avevo visto gli sguardi che lanciavi all’uomo dagli occhi blu. Allora non sapevi che fosse un sacerdote, ma ora lo sai. Chiara stai giocando con il fuoco…..lascialo in pace…..con tutti i ragazzi che ci sono in giro…..dammi ascolto….lascialo in pace. Ricordati Chiara che Dio non paga solo il sabato.”

“Nemmeno per sogno. lo amo!”

Come una bambina viziata ripeté più volte quella frase, per sostenere quello che stava dicendo o forse per convincere se stessa che quello che faceva era lecito nel segno dell’amore.

Luca la conosceva troppo bene. Altre volte gli aveva detto di essere innamorata e poi, quando aveva raggiunto il suo scopo, quello di far innamorare il suo amante, lo aveva buttato come uno stivale vecchio.

Ora, stanco dei continui colpi di testa della sorella, non poté far altro che dire:

“Non pensavo di arrivare a questo punto. Proprio non pensavo di dover dire a mia sorella: sei una puttana”. Poi, prima di uscire da quella piccola stanza, mise una mano nella tasca, ne estrasse quattro pezzi da mille lire e glieli buttò sul viso.

La sfuriata del fratello le scivolò addosso come olio. Lei aveva ottenuto per quel momento quello che voleva.

Daniele intanto, nella sua stanza, era scoppiato in un pianto dirotto. Mille dubbi lo avevano assalito e non era più certo della sua vocazione. Con la complicità della notte, senza essere visto da nessuno, si recò nella cappella. Arrivato ai piedi dell’altare, vi si sdraiò davanti col viso rivolto a terra e con le braccia larghe come se fosse inchiodato alla croce e umilmente chiese perdono a Dio.

Finalmente quella vacanza finì e tutti tornarono alle loro rispettive dimore. Chiara ormai aveva compiuto la maggiore età, che non era a 18 ma a 21 anni. Suo padre le aveva regalato una Pagoda grigio metallizzato della Mercedes e lei incominciò a scorrazzare in lungo e in largo con quella splendida macchina, riuscendo ancora ad incontrare Daniele e a fare di nuovo l’amore con lui.

“Ti amo” gli diceva “quando ti decidi a lasciare il tuo Dio e a metterti con me?” Tutte le volte che il sacerdote cedeva alle grazie della giovane, piombava nella disperazione più assoluta.

La vocazione l’aveva in animo fin dalla più tenera età. Aveva solo sei anni quando espresse ai genitori il desiderio di diventare un prete.

“Sei troppo piccolo per sapere che cosa farai quando sarai grande….ne deve passare di acqua sotto i ponti e ne devi mangiare così si polenta” gli dicevano ogniqualvolta lui entrava in questo argomento. I suoi genitori, famiglia benestante, avevano fatto di tutto per far desistere il figlio ad intraprendere quella strada così dura. Lo avevano anche mandato a studiare in Inghilterra per levarlo dall’influenza di don Adriano, suo insegnante di religione. Davano la colpa a lui di aver plagiato il figlio. Essendo figlio unico, avevano sognato un matrimonio con la figlia di qualche industrialotto della zona. Invece lui imperterrito, tornato da Londra, andò in un seminario e poi al piccolo paese del bassa bergamasca come coadiutore di don Adriano.

Avrebbe potuto, grazie agli studi fatti e a diversi meriti, entrare in Vaticano, ma aveva confessato di aver ceduto alle grazie di Chiara. Così dal piccolo paese della bassa bergamasca venne trasferito nel lecchese e gli fu affidata una piccolissima parrocchia. Piccola parrocchia in un paesino difficile da raggiungere e di poche anime. Sembrava la fotocopia di un film di don Camillo, il film in cui per punizione il prete venne spedito in una misera parrocchia semi diroccata, di uno sperduto paese di montagna. Anche Daniele era stato allontanato con la speranza di un suo ravvedimento e gli era stata assegnata la piccola chiesa di quel solitario paese, dove le tentazioni sarebbero state poche, anzi nulle.

Era difficile arrivarci, perché la strada era dissestata. In inverno infatti nevicava molto e la neve e il ghiaccio avevano sollevato l’asfalto. Grosse e profonde buche erano presenti sul manto stradale, ma né la strada impervia né la presenza delle buche riuscirono a fermare Chiara, che, non si sa come, era riuscita a sapere dove si trovava il giovane sacerdote.

Una donna stava accendendo una candela alla Madonna e Daniele stava confessando una persona, quando in chiesa entrò Chiara. Senza nemmeno farsi il segno della croce, andò a sedere su una delle panche vicino al confessionale e, quando la persona che sì stava confessando uscì, lei prese il suo posto.

“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”

“Non voglio confessarmi Padre. Io voglio te. Esci da questa cassa da morto e andiamo a fare un giro”

“Che cosa ci fai qui?…..come hai fatto a trovarmi?…..credevo di essermi liberato finalmente di te. Evidentemente Dio vuole mettermi nuovamente alla prova, ma non riesco a capire qual è il suo disegno divino. No! Non esco con te. In questo luogo sacro mi sento al sicuro”.

Chiara lasciò uscire anche l’ultimo fedele, poi andò davanti al confessionale e scostò la tendina.

“Ormai tu non sei più del tuo Dio, tu ormai sei mio. Qualsiasi cosa tu farai, non riuscirai mai ad allontanare il ricordo dei nostri momenti intimi. Ho voglia di fare l’amore con te, ora, subito. Anche questa volta avrò quello che desidero”.

Quel luogo santo diede a Daniele una forza di spirito che credeva morta e sepolta. Violando altri insegnamenti della Chiesa, preso dall’ira, colpì con un poderoso ceffone il volto della ragazza.

Chiara non si sarebbe mai aspettata una reazione del genere, anche perché nessuno l’aveva mai presa a schiaffi. Come una furia lei guardò l’uomo e, con occhi di fuoco e dopo avergli restituito il manrovescio, uscì di corsa dalla chiesa. Stava piangendo disperata, ma non era per il dolore o per amore, il suo pianto era il pianto isterico di chi non ha ottenuto quello che voleva. Poi, salita in auto, percorse a tutta velocità un tratto della strada danneggiata che l’avrebbe condotta in riva al lago. Le lacrime le scendevano copiose. La velocità, a causa della discesa, era sempre più sostenuta, fino a quando a una curva, non accortasi dell’arrivo di un camioncino e nel tentativo di evitarlo, andò con le ruote sul ciglio franoso della strada che, cedendo sotto il peso della macchina, la fece capottare, fino a raggiungere distrutta tre tornanti sotto. Chiara morì sul colpo.

Ignari della vera natura della ragazza, i signori Leone Valstorta, al cimitero, piangevano nella più completa disperazione la figlia morta. Solo Luca sapeva veramente tutto il retroscena che c’era dietro a quella morte e, quando la cassa fu calata nella fossa, dopo aver staccato un fiore da una corona, lo buttò sulla bara, pronunciando a bassa voce tra le lacrime, queste parole:

“Te lo avevo detto Chiara che Dio non paga solo il sabato!”


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche