Racconti di Carla Conti


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche




Gli occhiali azzurri
Marta, con un gesto di stizza, ruppe gli occhiali con un colpo preciso del tacco appuntito; Davide adesso era certo che lo avrebbe lasciato. Pochi minuti prima era riuscito ancora a strapparle lunghe grida di piacere ma sapeva che tutto ciò non sarebbe servito. Sapeva che era per l'ultima volta. Eppure, lo stesso, questo pensiero gli era intollerabile. Più era certo di perderla e più forte sentiva di amarla. Amava di lei anche quei singolari occhiali azzurri, ormai rotti. Li raccolse dal tappeto in un silenzio irreale, pezzo a pezzo. Notò che la lente destra era ancora intatta. Girandosi intravide nello specchio la sua figura di bel trentenne abbronzato. Non aveva mai lavorato e si vedeva. La dura fatica quotidiana non faceva per lui. Lui, con la sua bella figura, con i suoi splendidi occhi era fatto per ben altro. Aveva capito ben presto l'interesse che suscitava nel sesso femminile e con facilità aveva tratto molti vantaggi da questa sua inclinazione naturale.
Aveva scoperto poco a poco il suo potere e i regali che riceveva gli avevano fatto intravedere la possibilità di sfruttare il suo fascino. Aveva avuto molte storie con signore della buona borghesia quando entrò Marta nella sua vita e con lei aveva intravisto la possibilità di fare un salto di qualità. Una sera, neanche troppo tempo prima, era andato a teatro con un amico. In programma era una serata di musica classica che, sebbene non troppo interessante in sé, rappresentava un buon punto di contatto e di incontro con un certo ambiente. Quella sera splendide creature molto giovani si muovevano accompagnate generalmente da brutti uomini o da bellissimi omosessuali molto raffinati che facevano loro da chaperon.
Donne di una certa età trasudanti denaro erano accompagnate da giovani amici molto annoiati che si premuravano però di non darlo troppo a vedere. Quando si spensero le luci, quella che poi seppe essere Marta si presentò in scena vestita solo di un leggerissimo abito niveo che enfatizzava graziosamente ogni più piccolo movimento della sua pallida e fragile figura. A piedi nudi attraversò il palcoscenico, lo sguardo lontano.
Una fugare apparizione che subito svanì.
Le luci si spensero del tutto e per un attimo tutto rimase sospeso. Poi la musica scaturì all'improvviso e dal buio apparvero, al centro del palcoscenico, illuminate di calda luce un'arpa ed una donna. La musica liquida stillava da loro, goccia a goccia. La donna pareva immersa in quella musica e vibrava come le corde dello strumento che accarezzava con le lunghe e candide mani. Davide rimase stupito nel vedere l'amplesso vibrante che quella donna metteva in scena. Si faceva penetrare dalla musica, accarezzava le corde dell'arpa piegandosi su essa oscillando al ritmo delle note. Suonava divinamente e più suonava e più cresceva il parossismo delle note, liquide come gli umori che attraversavano dentro e fuori il suo corpo. Sudata e ansante lentamente lasciò le corde e d'improvviso la luce su lei si spense. Davide rimase profondamente turbato e alla fine non riuscì neppure ad applaudire. Tutto il pubblico ebbe la stessa reazione e rimase impietrito quando l'ultima nota svanì. Alcuni secondi di silenzio e poi esplose, improvviso e fragoroso, l'applauso della sala. Tutto il pubblico in piedi, frenetico la acclamava chiamandola. Ma ella non uscì. La platea non smetteva di applaudire ostinata e grata per la splendida emozione provata. Lei però suonava solo per se e per la musica e non uscì.
Davide, colpito, l'attese all'uscita del teatro. Pensava che quella donna, così potente e famosa potesse aver bisogno di un uomo. Una piccola folla di ammiratori si era radunata lì. Ella uscì dal teatro già avvolta dalla sua piccola corte di paria e lui, come altri, si accodò al gruppetto che finì in un ristorante.
Davide, sbiadito tra la folla, non riusciva neppure a parlare. Si sentiva a disagio fra quelle persone, aveva la sicurezza della bellezza dalla sua ma non sapeva come entrare in quelle conversazioni artistiche e quindi taceva. Man mano che la serata procedeva prese coraggio e tentò di entrare nella conversazione e farsi notare da lei ma nessuno lo ascoltava veramente. L'attenzione era fagocitata da altri, e ormai era convinto di non avere chance. In quel gruppo, pensava solo di riuscire antipatico e magari un po' stupido. Ma gli sembrava che gli occhi belli di lei, sotto quegli occhiali dall'azzurro intenso, ogni tanto cercavano i suoi.
Non ne era certo ma credeva di aver colto in quello sguardo acceso, un interesse. Frattanto alcune ragazze innervosite, quasi si litigavano punzecchiandosi a vicenda con battute cattive. Lei, signorilmente, ignorava quasi tutti e quasi tutto ciò che avveniva in quella strana combriccola. Loro due sembravano i soli, a quel tavolo, che non parlassero a sproposito.

L'animazione ed il nervosismo crebbero d'intensità e quando le due amiche si misero a litigare veramente Marta si alzò dal tavolo ed uscì. Davide la seguì prontamente. Appena fuori, nel buio si appoggiò al muro. Due labbra calde si posarono sulle sue ed egli ne fu assolutamente felice. Presero a vedersi ed a farsi vedere sempre insieme. Lui divenne il suo accompagnatore ufficiale. Dopo gli spettacoli la faceva gridare d'amore e sentiva le sue mani lunghe e calde percorrergli il corpo e guardava il suo viso, non più giovane, contrarsi di piacere. Quel volto gli era sempre più caro, quelle ciglia che si curvavano sul suo ventre gli erano care, come tutta la sua persona. Forse troppo. Ma era lei che invece sfuggiva, era lei che non gli apparteneva del tutto. Sentiva che nell'estasi del piacere, nell'abbandono dell'amore, qualcosa di lei si tratteneva. Nonostante la forza dei sensi, c'era qualcosa, più forte di lui e con il quale non poteva competere. Avrebbe voluto dominarla completamente ed essere presente nei suoi pensieri sempre.
Avrebbe voluto che lei grondasse amore, che fosse schiava dei sensi. Avrebbe voluto piegarla al potere del suo sesso. Ma lei, come sempre, si abbandonava a lui, godeva di lui ma alzata dal letto ritornava una donna eterea ed algida assolutamente distante. Anzi aveva notato più volte che la sua presenza a volte la infastidiva. Ella viveva in una sua dimensione artistica che non lasciava spazio ad altro. Solo l'arte era la sua divinità e lui non era che un diversivo piacevole per passare un po' di tempo, un modo per accudire e soddisfare il corpo di lei, per placare un desiderio che a volte non la faceva dormire. A questo egli era chiamato. Quando si fosse stancata, lo avrebbe discretamente passato ad un'amica. Del resto era un ottimo e gentile stallone e l'amica ne sarebbe stata contenta.
Ma in lui era accaduto qualcosa. Lui l'amava e questo non lo aveva previsto. Non poteva tollerare che lo usasse così. Si guardò nuovamente nello specchio. Era veramente bello, con quella bocca maschile dalla piega un po' perversa. Come poteva, lei, fare a meno di questa bocca. Come poteva fare a meno di lui. Sentì gli occhiali azzurri nelle sue mani. Li guardò, li rimise dolcemente sul viso di lei che adesso era livido. La corda del si bemolle le aveva quasi reciso la gola.

Border line
Finalmente era giunto il momento che tanto attendevi e per il quale ti eri molto preparata nei giorni precedenti. L'odio ormai ti aveva infettato cuore e cervello. Odiavi, e più quest'odio cresceva, più desideravi agire in fretta, dare corpo al veleno perfido che scorreva, dilagando, nelle sinapsi del cervello.
Adem era morto. Aveva ventidue anni ed era l'amore. L'amore che faceva battere il cuore, l'amore radioso
Che illumina la vita. Adem dalle labbra sincere e gli occhi neri con mille promesse per il futuro.
Un futuro che non arriverà. Adem adesso è morto, come tanti altri. Ucciso in una guerra che non capivi e forse, prima che ti ferisse a morte, non conoscevi. Vagasti senza meta per giorni fra le case e i palazzi anneriti. Qualcuno ti trovò e ti riportò a casa. Dicono che il dolore ha un suo decorso clinico "tipico" e non c'è che da lasciarsi vivere in attesa che il tempo faccia il suo sporco lavoro ricucendo ferite ma lasciando spesso cicatrici indelebili e dolorose. In psichiatria tutto ciò viene chiamato, pomposamente, "elaborazione del lutto".
Ma tu non sapevi niente di questo. Avevi solo vent'anni e improvvisamente quel tuo cuore caldo era stato strappato per sempre. Perché era morto, quel ragazzo dagli occhi sinceri? E tutti gli altri, ogni giorno di più, sempre di più. E' ovvio, normale, morire. C'è la guerra. Poi era toccato ad un amico e poi fu la volta di uno zio ed un cugino. Con il tempo non ci fu famiglia che non dovesse "elaborare" la perdita di un caro e senza alcun aiuto da psicologi non più ansiosi di curiosare nei recessi insondabili del dolore umano.
Avevano evidentemente altro da fare. Mantenersi vivi, per esempio.
Con il passare del tempo ciò che sembrava impossibile appena un anno prima divenne realtà e poi, tristemente, routine: la cronica scarsità di cibo, il freddo cattivo di un inverno all'addiaccio, le strade di poltiglia, i feriti, i morti, le granate. Branchi di cani mutilati, inselvatichiti e rabbiosi rimasero i soli padroni della notte sparendo poi, chissà dove fra i mille anfratti dei palazzi distrutti, alle prime luci dell'alba.
Come quei cani, gli uomini regredivano fino a sottostare alle più elementari e infami necessità corporali.
Tu, colpita al cuore ma colma di indomita rabbia giovanile, non potevi rimanere inerte mentre intorno si compiva il massacro dell'umanità. Le giraffe perdevano i lunghi colli, gli elefanti la proboscide e l'uomo si trovava ad essere di nuovo quell'ancestrale e sanguinario primate carnivoro che era stato, in lotta con i propri simili fino al limite della sopravvivenza della specie.
Ma avevi una natura ribelle che reagiva con l'odio. Odio che sembrava aver contagiato tutti e come un velo di iprite si era posato sui cervelli scoperchiati. E così, laddove scarseggiava ormai tutto, era fin troppo facile procurarsi un'arma, ad esempio un fucile di precisione. Con quel temibile lasciapassare ti presentasti a qualcuno e, seppur guardata con sospetto e forse disprezzata, accettarono di esserti maestri di morte. Chissà perché il maschio umano trova così aberrante che una femmina, in quanto tale, possa dare la morte. E' forse il ricordo ancestrale di un'attitudine alla battaglia che aveva consacrato un potere virile altrimenti inesistente e che adesso vacillava, minacciato dalla cultura e dall'immane sviluppo tecnologico che aveva trasformato completamente la guerra? Bastava premere un bottone, tirare una leva per uccidere centinaia, addirittura migliaia di esseri viventi. Poteva farlo anche un bambino. Comunque, imparasti a sparare molto bene. Ma i tuoi maestri continuarono a guardarti in modo strano e non ti avrebbero assolta, anche se adesso gli eri preziosa e così dalle loro labbra non uscirono mai aperte parole di biasimo.
Il giorno tanto atteso infine arrivò e tu eri lì, da sola, fin dalla mattina. Nascosta all'ultimo piano di un palazzo bombardato fissando per ore un esile ragno sospeso nell'angolo che dondolava, leggero, nel vento ricordando come tutto era iniziato. Ogni tanto guardavi giù nella strada attraverso le lenti del mirino e ti stupivi sempre, della potenza di quelle lenti, attraverso le quali tutto era visibile nei minimi dettagli: ogni sasso, ogni ruga, ogni rossore, ogni singolo capello ti si mostravano come se tu fossi proprio lì vicino, non più che a pochi passi. Ti concentrasti su una delle poche figure scure che osavano avventurarsi in strada. Era una giovane donna che camminava veloce rasente un muro. Aveva un fazzoletto annodato sotto la gola e un volto giovane e teso, aggrottato tra le sopracciglia in una espressione che tradiva una profonda tensione. La sua mano stringeva quella di una bambina dalle ginocchia rosse che sembrava non volerla seguirla e cercava, con tutte le sue forze, di liberarsi dalla stretta della madre che quasi la trascinava, camminando velocemente e tirando la sua bambina recalcitrante senza quasi badarle, tutta tesa com'era a scongiurare il pericolo e con quell'espressione di cupa determinazione in volto. Inquadrasti le piccole guance rosse di freddo e poi quelle due mani strettamente intrecciate e infine la gonna scozzese della bambina. Ti avevano messa in guardia. Dovevi solo inquadrare e non guardare. Non dovevi indugiare troppo fino a vedere davvero il volto del tuo nemico. Inquadrare e far fuoco subito solo questo dovevi fare. Ma il tuo sguardo non poteva fare a meno di essere rapito da quello spezzone di vita di un tempo che adesso non ti apparteneva più. Abbassasti il fucile stremata, era così pesante da tenere a lungo… Per un attimo credesti di non farcela ma con uno scatto dei nervi riprendesti l'arma e subito cercasti il volto della madre. Aveva occhi neri cerchiati di stanchezza e di stenti. Pensasti alla bocca dolce di Adem, alla sua bellezza. Non avresti mai più avuto un figlio da lui, non avresti mai rivisto, in un piccolo volto, quei suoi occhi d'amore e il taglio inconfondibile delle sue labbra sincere.

D'un tratto non pensasti a nulla e la piccola croce nera fu sulla fronte tenera della bambina. Con braccio fermo sparasti un unico colpo. Quasi subito si levò un grido terribile che squarciò il cielo. Anche dopo, quelle urla non cessarono…. Ti ritirasti dalla finestra con gli occhi ancora chiusi e sedesti per terra, schiena al muro. Era fatta. Niente sarebbe stato come prima. Tu non eri più quella di prima. Ma quelle urla e quel pianto ancora non cessavano… Non dovevi ascoltare quel canto di sirena ferita a morte, ti avrebbe fatto impazzire e non avevi cera per le tue orecchie. Accendesti una sigaretta e bevesti birra da una lattina. Dovevi scappare in fretta altrimenti saresti stata individuata. Dovevi fuggire ma non ci riuscivi. Le gambe, inerti, ciondolavano senza più forza. Ti affacciasti nuovamente alla finestra e ad occhio nudo, in lontananza, vedesti una sagoma scura in ginocchio e qualcosa di scozzese per terra.
In un lampo ti sei vista, con il fucile puntato sul volto pieno di paura della madre e poi l'altro piccolo volto di bambina con le gote arrossate dallo sforzo di liberarsi e lo sguardo pieno di ostinata innocenza.
Ecco cos'avevi inquadrato: una bambina che "faceva le bizze" in mezzo alla strada, in guerra, d'inverno, sotto il tiro dei cecchini. Ti rendesti conto in un momento, e la scoperta ti provocò un colpo sordo nel ventre, che quella bambina era la sola cosa viva e reale in quell'inferno di follia e distruzione.
Chissà se hai pianto, ma l'ubriacatura d'odio si dissolse in un attimo e vedesti così chiaro come mai prima. L'illuminazione improvvisa e abbagliante aveva dissolto le nebbie della coscienza riscuotendola dal torpore dei millenni. La visione così chiara di te stessa fu troppo, per essere sopportata. Capisti tutto ma ormai era troppo tardi. Eri andata troppo avanti, ben oltre la linea del non ritorno. La guerra aveva fottuto anche te, come tutti

L'ultima immagine impressa a fuoco nella retina fu quella di un ragno esile nell'angolo, che si cullava sulla sua ragnatela mossa dalle raffiche cattive del vento del nord. Uno schizzo di sangue schiumoso arrivò quasi fino all'angolo, dove l'esile ragno continuava ad oscillare, innocente e leggero, nella tramontana gelida.

L'ombra della sera
Aveva muscoli ben delineati sotto la maglietta leggera e i capelli castani con alcuni ciuffi sparsi più chiari, quasi biondi. Gli occhi erano seri e profondi, gonfi di ormoni maschili. Aveva in bocca l'antico sapore di caffè amaro e denti bianchissimi.
Io, allora, desideravo le arditezze sessuali. Ogniqualvolta il mio interesse veniva catturato da un uomo ero portata, naturalmente, ad immaginarne l'amplesso e come desiderasse penetrare in una donna, come riusciva a lasciar andare la propria mente verso mete irraggiungibili, come sentisse lo spasmo d'amore.
Lui, inconsapevole dei miei pensieri, possedeva uno sguardo saggiamente sessuale.
Il suo mondo maschile osservava il mio, gentile ninfa dai capelli svagati e mi incendiava la mente.
Il suo volto splendeva senza ombre nel riverbero della gioventù. Passava l'autunno e mi catturasti irragionevolmente e ti gridavo in silenzio che la pietra del mio volto era il desiderio. Ciascuno di noi era stanco di avere un percorso parallelo e senza parole ci baciammo nell'universo. Ci baciammo ancora e ancora ci baciammo naufraghi nelle nebbie di Capo Horn. Durante quell'inverno di venti taglienti avvenne che i nostri battelli si incontrarono, alla deriva. Verso nord , nord - ovest sopravvivemmo a noi stessi e alle nostre povere vite.
Senti come batte, questo muscolo audace, ascolta il sospiro dell'elefante prigioniero e sorprendine l'ombra malata.
Tranquillo, dopo aver rilasciato il tuo sperma, mi guardavi andar via.
Giunta lontano mi voltavo e di te nel buio, addossato al muro di un palazzo, intuivo la segreta presenza dalla piccola brace di una sigaretta.
Mutava la mia bocca accesa dai tuoi baci, mi incendiavi le carni e la mente con la furia e la dolcezza infinita dei tuoi silenzi.
La scintilla ardeva ancora, trafitta dalla tarda estate nelle distese dei campi notturni, profumati di umori e tu lasciasti tutto per seguire me, inconsapevole pifferaio dai capelli ostinati.
Nel tuo cuore albergava un irragionevole impero dei sensi che si prolungava oltre.
Non dovevi domandarmi dove portava la mia strada, mille e una possibilità soltanto.
Il passaggio a nord-ovest ti ha sfiancato e senza consensi ti ha consumato.
Disperso nell'isola segreta non puoi seguirmi oltre.

Folle e misteriosa, ornata di grancevole cammino nel buio come un Lampiride intermittente.
Temi ch'io possa dimenticare il tuo fuoco, il tuo sguardo acceso il sapore di caffè della tua lingua e trattieni i miei fili e cosa vedi, audace capitano che soffre il mar di mare?

Vedi il mio fluire tra le tue dita che non riescono a trattenere la mia deriva, vascello privo di timone che gode dei flutti e stilla miele dalle ferite.

 


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche