Gli occhiali azzurri
Marta, con un gesto di stizza, ruppe gli occhiali con un colpo preciso del
tacco appuntito; Davide adesso era certo che lo avrebbe lasciato. Pochi
minuti prima era riuscito ancora a strapparle lunghe grida di piacere ma
sapeva che tutto ciò non sarebbe servito. Sapeva che era per l'ultima
volta. Eppure, lo stesso, questo pensiero gli era intollerabile. Più era
certo di perderla e più forte sentiva di amarla. Amava di lei anche quei
singolari occhiali azzurri, ormai rotti. Li raccolse dal tappeto in un
silenzio irreale, pezzo a pezzo. Notò che la lente destra era ancora
intatta. Girandosi intravide nello specchio la sua figura di bel trentenne
abbronzato. Non aveva mai lavorato e si vedeva. La dura fatica quotidiana
non faceva per lui. Lui, con la sua bella figura, con i suoi splendidi
occhi era fatto per ben altro. Aveva capito ben presto l'interesse che
suscitava nel sesso femminile e con facilità aveva tratto molti vantaggi
da questa sua inclinazione naturale.
Aveva scoperto poco a poco il suo potere e i regali che riceveva gli
avevano fatto intravedere la possibilità di sfruttare il suo fascino.
Aveva avuto molte storie con signore della buona borghesia quando entrò
Marta nella sua vita e con lei aveva intravisto la possibilità di fare un
salto di qualità. Una sera, neanche troppo tempo prima, era andato a
teatro con un amico. In programma era una serata di musica classica che,
sebbene non troppo interessante in sé, rappresentava un buon punto di
contatto e di incontro con un certo ambiente. Quella sera splendide
creature molto giovani si muovevano accompagnate generalmente da brutti
uomini o da bellissimi omosessuali molto raffinati che facevano loro da
chaperon.
Donne di una certa età trasudanti denaro erano accompagnate da giovani
amici molto annoiati che si premuravano però di non darlo troppo a vedere.
Quando si spensero le luci, quella che poi seppe essere Marta si presentò
in scena vestita solo di un leggerissimo abito niveo che enfatizzava
graziosamente ogni più piccolo movimento della sua pallida e fragile
figura. A piedi nudi attraversò il palcoscenico, lo sguardo lontano.
Una fugare apparizione che subito svanì.
Le luci si spensero del tutto e per un attimo tutto rimase sospeso. Poi la
musica scaturì all'improvviso e dal buio apparvero, al centro del
palcoscenico, illuminate di calda luce un'arpa ed una donna. La musica
liquida stillava da loro, goccia a goccia. La donna pareva immersa in
quella musica e vibrava come le corde dello strumento che accarezzava con
le lunghe e candide mani. Davide rimase stupito nel vedere l'amplesso
vibrante che quella donna metteva in scena. Si faceva penetrare dalla
musica, accarezzava le corde dell'arpa piegandosi su essa oscillando al
ritmo delle note. Suonava divinamente e più suonava e più cresceva il
parossismo delle note, liquide come gli umori che attraversavano dentro e
fuori il suo corpo. Sudata e ansante lentamente lasciò le corde e
d'improvviso la luce su lei si spense. Davide rimase profondamente turbato
e alla fine non riuscì neppure ad applaudire. Tutto il pubblico ebbe la
stessa reazione e rimase impietrito quando l'ultima nota svanì. Alcuni
secondi di silenzio e poi esplose, improvviso e fragoroso, l'applauso
della sala. Tutto il pubblico in piedi, frenetico la acclamava
chiamandola. Ma ella non uscì. La platea non smetteva di applaudire
ostinata e grata per la splendida emozione provata. Lei però suonava solo
per se e per la musica e non uscì.
Davide, colpito, l'attese all'uscita del teatro. Pensava che quella donna,
così potente e famosa potesse aver bisogno di un uomo. Una piccola folla
di ammiratori si era radunata lì. Ella uscì dal teatro già avvolta dalla
sua piccola corte di paria e lui, come altri, si accodò al gruppetto che
finì in un ristorante.
Davide, sbiadito tra la folla, non riusciva neppure a parlare. Si sentiva
a disagio fra quelle persone, aveva la sicurezza della bellezza dalla sua
ma non sapeva come entrare in quelle conversazioni artistiche e quindi
taceva. Man mano che la serata procedeva prese coraggio e tentò di entrare
nella conversazione e farsi notare da lei ma nessuno lo ascoltava
veramente. L'attenzione era fagocitata da altri, e ormai era convinto di
non avere chance. In quel gruppo, pensava solo di riuscire antipatico e
magari un po' stupido. Ma gli sembrava che gli occhi belli di lei, sotto
quegli occhiali dall'azzurro intenso, ogni tanto cercavano i suoi.
Non ne era certo ma credeva di aver colto in quello sguardo acceso, un
interesse. Frattanto alcune ragazze innervosite, quasi si litigavano
punzecchiandosi a vicenda con battute cattive. Lei, signorilmente,
ignorava quasi tutti e quasi tutto ciò che avveniva in quella strana
combriccola. Loro due sembravano i soli, a quel tavolo, che non parlassero
a sproposito.
L'animazione ed il nervosismo crebbero d'intensità e quando le due amiche
si misero a litigare veramente Marta si alzò dal tavolo ed uscì. Davide la
seguì prontamente. Appena fuori, nel buio si appoggiò al muro. Due labbra
calde si posarono sulle sue ed egli ne fu assolutamente felice. Presero a
vedersi ed a farsi vedere sempre insieme. Lui divenne il suo
accompagnatore ufficiale. Dopo gli spettacoli la faceva gridare d'amore e
sentiva le sue mani lunghe e calde percorrergli il corpo e guardava il suo
viso, non più giovane, contrarsi di piacere. Quel volto gli era sempre più
caro, quelle ciglia che si curvavano sul suo ventre gli erano care, come
tutta la sua persona. Forse troppo. Ma era lei che invece sfuggiva, era
lei che non gli apparteneva del tutto. Sentiva che nell'estasi del
piacere, nell'abbandono dell'amore, qualcosa di lei si tratteneva.
Nonostante la forza dei sensi, c'era qualcosa, più forte di lui e con il
quale non poteva competere. Avrebbe voluto dominarla completamente ed
essere presente nei suoi pensieri sempre.
Avrebbe voluto che lei grondasse amore, che fosse schiava dei sensi.
Avrebbe voluto piegarla al potere del suo sesso. Ma lei, come sempre, si
abbandonava a lui, godeva di lui ma alzata dal letto ritornava una donna
eterea ed algida assolutamente distante. Anzi aveva notato più volte che
la sua presenza a volte la infastidiva. Ella viveva in una sua dimensione
artistica che non lasciava spazio ad altro. Solo l'arte era la sua
divinità e lui non era che un diversivo piacevole per passare un po' di
tempo, un modo per accudire e soddisfare il corpo di lei, per placare un
desiderio che a volte non la faceva dormire. A questo egli era chiamato.
Quando si fosse stancata, lo avrebbe discretamente passato ad un'amica.
Del resto era un ottimo e gentile stallone e l'amica ne sarebbe stata
contenta.
Ma in lui era accaduto qualcosa. Lui l'amava e questo non lo aveva
previsto. Non poteva tollerare che lo usasse così. Si guardò nuovamente
nello specchio. Era veramente bello, con quella bocca maschile dalla piega
un po' perversa. Come poteva, lei, fare a meno di questa bocca. Come
poteva fare a meno di lui. Sentì gli occhiali azzurri nelle sue mani. Li
guardò, li rimise dolcemente sul viso di lei che adesso era livido. La
corda del si bemolle le aveva quasi reciso la gola.Border line
Finalmente era giunto il momento che tanto attendevi e per il quale ti
eri molto preparata nei giorni precedenti. L'odio ormai ti aveva
infettato cuore e cervello. Odiavi, e più quest'odio cresceva, più
desideravi agire in fretta, dare corpo al veleno perfido che scorreva,
dilagando, nelle sinapsi del cervello.
Adem era morto. Aveva ventidue anni ed era l'amore. L'amore che faceva
battere il cuore, l'amore radioso
Che illumina la vita. Adem dalle labbra sincere e gli occhi neri con
mille promesse per il futuro.
Un futuro che non arriverà. Adem adesso è morto, come tanti altri.
Ucciso in una guerra che non capivi e forse, prima che ti ferisse a
morte, non conoscevi. Vagasti senza meta per giorni fra le case e i
palazzi anneriti. Qualcuno ti trovò e ti riportò a casa. Dicono che il
dolore ha un suo decorso clinico "tipico" e non c'è che da lasciarsi
vivere in attesa che il tempo faccia il suo sporco lavoro ricucendo
ferite ma lasciando spesso cicatrici indelebili e dolorose. In
psichiatria tutto ciò viene chiamato, pomposamente, "elaborazione del
lutto".
Ma tu non sapevi niente di questo. Avevi solo vent'anni e
improvvisamente quel tuo cuore caldo era stato strappato per sempre.
Perché era morto, quel ragazzo dagli occhi sinceri? E tutti gli altri,
ogni giorno di più, sempre di più. E' ovvio, normale, morire. C'è la
guerra. Poi era toccato ad un amico e poi fu la volta di uno zio ed un
cugino. Con il tempo non ci fu famiglia che non dovesse "elaborare" la
perdita di un caro e senza alcun aiuto da psicologi non più ansiosi di
curiosare nei recessi insondabili del dolore umano.
Avevano evidentemente altro da fare. Mantenersi vivi, per esempio.
Con il passare del tempo ciò che sembrava impossibile appena un anno
prima divenne realtà e poi, tristemente, routine: la cronica scarsità
di cibo, il freddo cattivo di un inverno all'addiaccio, le strade di
poltiglia, i feriti, i morti, le granate. Branchi di cani mutilati,
inselvatichiti e rabbiosi rimasero i soli padroni della notte sparendo
poi, chissà dove fra i mille anfratti dei palazzi distrutti, alle
prime luci dell'alba.
Come quei cani, gli uomini regredivano fino a sottostare alle più
elementari e infami necessità corporali.
Tu, colpita al cuore ma colma di indomita rabbia giovanile, non potevi
rimanere inerte mentre intorno si compiva il massacro dell'umanità. Le
giraffe perdevano i lunghi colli, gli elefanti la proboscide e l'uomo
si trovava ad essere di nuovo quell'ancestrale e sanguinario primate
carnivoro che era stato, in lotta con i propri simili fino al limite
della sopravvivenza della specie.
Ma avevi una natura ribelle che reagiva con l'odio. Odio che sembrava
aver contagiato tutti e come un velo di iprite si era posato sui
cervelli scoperchiati. E così, laddove scarseggiava ormai tutto, era
fin troppo facile procurarsi un'arma, ad esempio un fucile di
precisione. Con quel temibile lasciapassare ti presentasti a qualcuno
e, seppur guardata con sospetto e forse disprezzata, accettarono di
esserti maestri di morte. Chissà perché il maschio umano trova così
aberrante che una femmina, in quanto tale, possa dare la morte. E'
forse il ricordo ancestrale di un'attitudine alla battaglia che aveva
consacrato un potere virile altrimenti inesistente e che adesso
vacillava, minacciato dalla cultura e dall'immane sviluppo tecnologico
che aveva trasformato completamente la guerra? Bastava premere un
bottone, tirare una leva per uccidere centinaia, addirittura migliaia
di esseri viventi. Poteva farlo anche un bambino. Comunque, imparasti
a sparare molto bene. Ma i tuoi maestri continuarono a guardarti in
modo strano e non ti avrebbero assolta, anche se adesso gli eri
preziosa e così dalle loro labbra non uscirono mai aperte parole di
biasimo.
Il giorno tanto atteso infine arrivò e tu eri lì, da sola, fin dalla
mattina. Nascosta all'ultimo piano di un palazzo bombardato fissando
per ore un esile ragno sospeso nell'angolo che dondolava, leggero, nel
vento ricordando come tutto era iniziato. Ogni tanto guardavi giù
nella strada attraverso le lenti del mirino e ti stupivi sempre, della
potenza di quelle lenti, attraverso le quali tutto era visibile nei
minimi dettagli: ogni sasso, ogni ruga, ogni rossore, ogni singolo
capello ti si mostravano come se tu fossi proprio lì vicino, non più
che a pochi passi. Ti concentrasti su una delle poche figure scure che
osavano avventurarsi in strada. Era una giovane donna che camminava
veloce rasente un muro. Aveva un fazzoletto annodato sotto la gola e
un volto giovane e teso, aggrottato tra le sopracciglia in una
espressione che tradiva una profonda tensione. La sua mano stringeva
quella di una bambina dalle ginocchia rosse che sembrava non volerla
seguirla e cercava, con tutte le sue forze, di liberarsi dalla stretta
della madre che quasi la trascinava, camminando velocemente e tirando
la sua bambina recalcitrante senza quasi badarle, tutta tesa com'era a
scongiurare il pericolo e con quell'espressione di cupa determinazione
in volto. Inquadrasti le piccole guance rosse di freddo e poi quelle
due mani strettamente intrecciate e infine la gonna scozzese della
bambina. Ti avevano messa in guardia. Dovevi solo inquadrare e non
guardare. Non dovevi indugiare troppo fino a vedere davvero il volto
del tuo nemico. Inquadrare e far fuoco subito solo questo dovevi fare.
Ma il tuo sguardo non poteva fare a meno di essere rapito da quello
spezzone di vita di un tempo che adesso non ti apparteneva più.
Abbassasti il fucile stremata, era così pesante da tenere a lungo… Per
un attimo credesti di non farcela ma con uno scatto dei nervi
riprendesti l'arma e subito cercasti il volto della madre. Aveva occhi
neri cerchiati di stanchezza e di stenti. Pensasti alla bocca dolce di
Adem, alla sua bellezza. Non avresti mai più avuto un figlio da lui,
non avresti mai rivisto, in un piccolo volto, quei suoi occhi d'amore
e il taglio inconfondibile delle sue labbra sincere.
D'un tratto non pensasti a nulla e la piccola croce nera fu sulla
fronte tenera della bambina. Con braccio fermo sparasti un unico
colpo. Quasi subito si levò un grido terribile che squarciò il cielo.
Anche dopo, quelle urla non cessarono…. Ti ritirasti dalla finestra
con gli occhi ancora chiusi e sedesti per terra, schiena al muro. Era
fatta. Niente sarebbe stato come prima. Tu non eri più quella di
prima. Ma quelle urla e quel pianto ancora non cessavano… Non dovevi
ascoltare quel canto di sirena ferita a morte, ti avrebbe fatto
impazzire e non avevi cera per le tue orecchie. Accendesti una
sigaretta e bevesti birra da una lattina. Dovevi scappare in fretta
altrimenti saresti stata individuata. Dovevi fuggire ma non ci
riuscivi. Le gambe, inerti, ciondolavano senza più forza. Ti
affacciasti nuovamente alla finestra e ad occhio nudo, in lontananza,
vedesti una sagoma scura in ginocchio e qualcosa di scozzese per
terra.
In un lampo ti sei vista, con il fucile puntato sul volto pieno di
paura della madre e poi l'altro piccolo volto di bambina con le gote
arrossate dallo sforzo di liberarsi e lo sguardo pieno di ostinata
innocenza.
Ecco cos'avevi inquadrato: una bambina che "faceva le bizze" in mezzo
alla strada, in guerra, d'inverno, sotto il tiro dei cecchini. Ti
rendesti conto in un momento, e la scoperta ti provocò un colpo sordo
nel ventre, che quella bambina era la sola cosa viva e reale in
quell'inferno di follia e distruzione.
Chissà se hai pianto, ma l'ubriacatura d'odio si dissolse in un attimo
e vedesti così chiaro come mai prima. L'illuminazione improvvisa e
abbagliante aveva dissolto le nebbie della coscienza riscuotendola dal
torpore dei millenni. La visione così chiara di te stessa fu troppo,
per essere sopportata. Capisti tutto ma ormai era troppo tardi. Eri
andata troppo avanti, ben oltre la linea del non ritorno. La guerra
aveva fottuto anche te, come tutti
L'ultima immagine impressa a fuoco nella retina fu quella di un ragno
esile nell'angolo, che si cullava sulla sua ragnatela mossa dalle
raffiche cattive del vento del nord. Uno schizzo di sangue schiumoso
arrivò quasi fino all'angolo, dove l'esile ragno continuava ad
oscillare, innocente e leggero, nella tramontana gelida.
L'ombra della sera
Aveva muscoli ben delineati sotto la maglietta leggera e i capelli castani
con alcuni ciuffi sparsi più chiari, quasi biondi. Gli occhi erano seri e
profondi, gonfi di ormoni maschili. Aveva in bocca l'antico sapore di
caffè amaro e denti bianchissimi.
Io, allora, desideravo le arditezze sessuali. Ogniqualvolta il mio
interesse veniva catturato da un uomo ero portata, naturalmente, ad
immaginarne l'amplesso e come desiderasse penetrare in una donna, come
riusciva a lasciar andare la propria mente verso mete irraggiungibili,
come sentisse lo spasmo d'amore.
Lui, inconsapevole dei miei pensieri, possedeva uno sguardo saggiamente
sessuale.
Il suo mondo maschile osservava il mio, gentile ninfa dai capelli svagati
e mi incendiava la mente.
Il suo volto splendeva senza ombre nel riverbero della gioventù. Passava
l'autunno e mi catturasti irragionevolmente e ti gridavo in silenzio che
la pietra del mio volto era il desiderio. Ciascuno di noi era stanco di
avere un percorso parallelo e senza parole ci baciammo nell'universo. Ci
baciammo ancora e ancora ci baciammo naufraghi nelle nebbie di Capo Horn.
Durante quell'inverno di venti taglienti avvenne che i nostri battelli si
incontrarono, alla deriva. Verso nord , nord - ovest sopravvivemmo a noi
stessi e alle nostre povere vite.
Senti come batte, questo muscolo audace, ascolta il sospiro dell'elefante
prigioniero e sorprendine l'ombra malata.
Tranquillo, dopo aver rilasciato il tuo sperma, mi guardavi andar via.
Giunta lontano mi voltavo e di te nel buio, addossato al muro di un
palazzo, intuivo la segreta presenza dalla piccola brace di una sigaretta.
Mutava la mia bocca accesa dai tuoi baci, mi incendiavi le carni e la
mente con la furia e la dolcezza infinita dei tuoi silenzi.
La scintilla ardeva ancora, trafitta dalla tarda estate nelle distese dei
campi notturni, profumati di umori e tu lasciasti tutto per seguire me,
inconsapevole pifferaio dai capelli ostinati.
Nel tuo cuore albergava un irragionevole impero dei sensi che si
prolungava oltre.
Non dovevi domandarmi dove portava la mia strada, mille e una possibilità
soltanto.
Il passaggio a nord-ovest ti ha sfiancato e senza consensi ti ha
consumato.
Disperso nell'isola segreta non puoi seguirmi oltre.
Folle e misteriosa, ornata di grancevole cammino nel buio come un
Lampiride intermittente.
Temi ch'io possa dimenticare il tuo fuoco, il tuo sguardo acceso il sapore
di caffè della tua lingua e trattieni i miei fili e cosa vedi, audace
capitano che soffre il mar di mare?
Vedi il mio fluire tra le tue dita che non riescono a trattenere la mia
deriva, vascello privo di timone che gode dei flutti e stilla miele dalle
ferite. |