Poesie di Maria Benedetta Cerro
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PROVE PER ATTO UNICO prefazione PROVE PER ATTO UNICO prefazione di Tommaso Di Brango Macabor 2023 – MACABOR Prima Edizione Francavilla Marittima (CS) In copertina: Elmerindo Fiore, Una giornata in fumo, 1994 Elaborazione grafica di Giorgio Ferrarini
Prefazione Nel baccello dell’alleanza si parla al singolare pur essendo in tanti. M.B. Cerro A volte alta / o con un sussurro? I versi con cui Maria Benedetta Cerro apre le sue Prove per atto unico parlano di una «città poetica» in cui l’io si trova «er-rante e solo». Si tratta, chiaramente, di una metafora che allude all’interiorità, centrale già nello Sguardo inverso («[nella città poetica] si accede ad occhi chiusi / e il versante è al buio»1). Il fatto che ora la Cerro impieghi una metafora urbana segna, però, ad avviso di chi scrive, un passo in avanti, ovvero un’ul-teriore evoluzione nel suo cammino di poetessa. Accostando l’interiorità allo spazio cittadino, infatti, l’autrice di Regalità della luce afferma che il «muto abisso»2 interrogato negli anni precedenti – il territorio «meditativo e intimo»3 da 1 L’impossibilità (metaforica) di vedere, dovuta a cecità o alla chiusura delle palpebre, impone al poeta di guardare in un’altra direzione (in modo, ap-punto, inverso) rispetto a quel che accade di consueto, ovvero nelle profon-dità dell’io. In proposito, mi permetto di rimandare a T. Di Brango, Il «mi-racolo crudele» della parola – Lo sguardo inverso di Maria Benedetta Cerro, in Id., Scritture dell’incompiuto – Saggi e recensioni, Cassino (FR), Mondostudio Edizioni, 2022, pp. 97-102.2 M. B. Cerro, Tu mi dici "terrifica e infelice", in Id., Lo sguardo inverso, Faloppio (CS), LietoColle, 2018, p. 24.3 M. B. Cerro, Purché sia la gioia: la profondità della gioia, op. cit., p. 49. ~6~cui nasce la poesia – è, in realtà, il luogo di una unità articolata o, se si preferisce, di una molteplicità che cerca di assemblarsi attorno a un più o meno stabile ubi consistam. L’io, insomma, non è solo la sede del sé, ma è anche il luogo in cui trova spazio l’altro da sé: dentro ognuno di noi c’è quel che siamo ma anche ciò che vi è stato collocato dalle nostre esperienze, relazioni, interazioni col prossimo. Se così stanno le cose, però, è anche evidente che i recessi dell’io, lungi dal fornire soluzione alle inquietudini esistenziali del poeta – e, in ultima istanza, di ognuno di noi –, costitui-scono un problema o, forse, una serie di problemi o, meglio, un mistero4. In che misura, infatti, l’altro che mi abita è occasione per farmi accedere alla luce, ovvero alla pienezza di senso e alla compiuta felicità cui pure, costantemente, aspiro? Quando, invece, la sua presenza non costituisce altro che il persistere di vecchie maschere, rottami di un passato di cui sbarazzarsi?5 Di fronte a queste e a molte altre domande, la poesia di Maria Benedetta Cerro riconosce con franchezza che la «città poetica» ha «i suoi labirinti» e che, non di rado, attraversarli significa perdersi, ovvero, letteralmente, perdere sé stessi: 4 Sulla differenza tra problema e mistero vedi G. Marcel, Essere e avere, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999. In questa sede, possiamo sintetica-mente dire che, mentre il problema, nei suoi termini essenziali, può essere definito dall’io, il mistero è una questione non pienamente definibile perché inglobante l’io stesso.5 «In due / nella stessa carne / eravamo in troppi. / Di chi il dire / di chi l’ascolto / e chi di noi era il diverso? / In questa moltitudine / la parola era sola», M. B. Cerro, La soglia e l’incontro, Venafro (IS), EVA, p. 18. Qui, come si vede, la molteplicità interna dell’io resta legata alla dimensione della dualità. Non siamo ancora alla «città poetica», ma siamo già all’imma-gine di un’interiorità intesa come unità articolata. Sull’importanza dei versi della Soglia nella recente produzione di Maria Benedetta Cerro vedi oltre. ~7~Mi sono assentata. Sono stata – anche per me stessa – introvabile. E non chiedermi dove sono stata. –Non lo so – Neppure adesso che cerco di capire come fa l’anima a smarrirsi. È il castigo dei labirinti il contrappasso dell’amore smisurato per la vita –il confino negli abissi – Cionondimeno, l’io lirico, in questi versi, non abbandona l’impulso a «discernere / nel nulla un cammino possibile». È anzi vero che «[l’] Anima ha passi pesanti / - porta in salvo un bambino tra le braccia -»: la fatica del vivere è data dall’impor-tanza della sua posta in gioco, ovvero dalla possibilità di la-sciare traccia sulla linea di una temporalità che, pur potendo serenamente fare a meno di noi («(…) neppure laverà col pianto / la soglia che avremo appena attraversato»), rimarrà in qualche modo modificata dai segni del nostro passaggio («Il tempo si ricorderà dell’inciso / di ciascuna delle nostre vite»). D’altronde, se è vero che «[è] un bosco intricato l’esistere», è anche vero che «sempre uno spazio / apre nell’ombra il sole / sempre negli uguali giorni ve n’è uno diverso»6. L’ingresso nella «città poetica», da parte di Maria Benedetta Cerro, però, porta anche a maturazione quanto rimaneva solo intuito e al-luso in un libro – La soglia e l’incontro – denso ma, forse, troppo 6 La metafora eliaca appena riportata mostra che, benché messa a dura prova, la tensione luministica tipica di Maria Benedetta Cerro non è venuta meno. Queste Prove, aggiungono, ad avviso di chi scrive, un tassello alla «trilogia della luce» formata da Regalità della luce, La congiura degli opposti e il più volte menzionato Sguardo inverso. ~8~poco considerato nella ricezione critica. In quelle pagine, in-fatti, tematizzando la necessaria complementarità tra ciò che ci separa dall’altro – la soglia – e ciò che a esso ci unisce – l’incontro –, la Cerro apriva la sua poesia a una possibile com-posizione armonica degli «opposti» che, pochi anni prima, avevano occupato un posto centrale nella sua scrittura7. Par-lando, ora, dell’interiorità come «città», ovvero luogo di inte-razione tra i molteplici, l’autrice di Lettera a una pietra mostra che tra l’io e l’altro non c’è solo complementarità, ma necessità reciproca: si dà il primo in quanto distinto dal secondo – la soglia è soglia solo se c’è qualcosa da cui occorre differenziarsi –, ma già questa distinzione comporta una forma di relazione – ov-vero: un incontro. 7 Alludo a M. B. Cerro, La congiura degli opposti, Faloppio (CS), LietoColle, 2012.*** La relazione con l’altro può assumere varie configurazioni. Può darsi nel momento in cui l’io si raccoglie, come in pre-ghiera, nel tentativo di trovare le parole adatte a dire l’«indici-bile» della «città poetica» («Rendimi esperta del sentire più profondamente. / Forzare la lama / perdere gli occhi / fino alla visione. / Dare un nome a tutto questo»); può essere un proprio simile che offre un anche minimo segno di cordialità («(…) agli umani / basta uno sguardo luminoso / un sorriso / a fugare il sapere doloroso / d’essere sospesi al caso»); pos-sono essere i trapassati che, inaspettatamente, sembrano par-lare attraverso gli occhi dei vivi («orli di un pozzo che è l’abisso umano») quasi fossero semi nascosti nella loro inte-riorità («Da quel punto parlano i morti / - dalla carne dove hanno scelto di dormire - / Dove a volte germogliano»). ~9~ Ma può darsi un’eventualità in cui l’altro diventi, semplice-mente, tutto quel che resta? Ovvero: può darsi uno scenario in cui l’io scompaia? La risposta, nella sua tremenda immediatezza, è affermativa: è la possibilità della morte, ovvero della mani-festazione dell’altro nella sua piena e compiuta radicalità. Non è un caso, dunque, se le Prove per atto unico di Maria Benedetta Cerro, nella loro esplorazione dell’altro e della sua relazione con l’io, si confrontano insistentemente col morire, con l’an-goscia che produce ma anche con la sua intima necessità. Solo sapendo che verrà il momento decisivo – quello dell’«"atto unico" risolutivo», come scrive la Cerro nelle Note ai testi –, infatti, si ha la possibilità di dare senso e direzione ai momenti che lo precedono e che, in ultima istanza, a esso tendono. È grazie alla morte, insomma, che l’io può diventare dav-vero io, ovvero dare consistenza e direzione a un’esistenza che, altrimenti, rimarrebbe pura incompiutezza: Non pensare alla morte / mentre la morte impera. È il suo tempo – e se lo abbia intero – Pensa secondo l’infanzia / che sa la morte come un gioco una parola fra le altre – che significano il nulla che sono – Pensa alla vita come un rotolo chiuso – aprilo ogni giorno per la prima volta – Credi alla sua lunghezza / e non t’illuda il peso – secondo lo spessore è la lunghezza secondo l’immaginazione è la bellezza – Pensa alla morte come a te stesso – al suo diritto d’esserti ombra – Perché chi non ha ombra / non è vivo. Come questi versi lasciano chiaramente trasparire, però, la morte di cui parla la Cerro ha una dimensione metafisica che ~10~ non fa a meno di confrontarsi con le asperità della storia con-temporanea. «[La] morte [che] impera», che è bene «abbia in-tero» quello che, agli occhi del poeta, appare essere «il suo tempo», corrisponde infatti al tragico spettacolo di devasta-zione offerto dalla pandemia da Covid-19 che, negli ultimi anni, ha violentemente flagellato le nostre esistenze. Molti dei versi presenti nelle Prove – di fatto, le sezioni Versi della mala-pena e La mala hora nella loro interezza – sono stati infatti con-cepiti durante il lockdown del 2020, quando un’umanità smar-rita seguiva quotidianamente, sui teleschermi, l’algido rito della conta dei deceduti («Le morti sono numeri in una sfera opaca») e la primavera italiana faticava a mostrarsi nelle forme di un’effettiva rinascita alla vita («Il quasi aprile è un assedio di neve»). Questo tremendo triumphus mortis postmoderno, però, non occupa l’intero giro d’orizzonte, nello sguardo della Cerro. Nel riscoprire, dopo averle a lungo negate celebrando i miti del progresso e del benessere, le proprie impotenze e fragilità («Mi credevo esperta / ed ero impreparata»), infatti, l’umanità provata dalla pandemia ha avuto l’opportunità – invero: non troppo sfruttata – di accorgersi di essere parte di una natura dotata di vitalità ed energia propria, refrattaria a essere consi-derata un semplice deposito di materiali indefinitamente sfrut-tabili e manipolabili e, anzi, pronta a far valere le sue istanze contro l’avidità della civiltà tecno-capitalistica. Si tratta, in-somma, di un’«Ampia Madre»8 che, con una sensibilità panica rara nel panorama della letteratura contemporanea, la Cerro 8 Sulla figura della madre nella poesia di Maria Benedetta Cerro si potrebbe scrivere e, verosimilmente, si scriverà molto. Nelle Prove, essa assume i già evocati caratteri della natura ma anche quelli dell’origine vagheggiata e per-duta: «Ed io vorrei a volte essermi madre / darmi una carezza / smettere il rifiuto / di un’attenzione / un gesto / e persino di una bella parola / sentire sul capo come un peso». ~11~rappresenta come una totalità di fronte a cui l’uomo non do-vrebbe sentirsi un privilegiato e in cui dovrebbe, piuttosto, tornare a immergersi: Il male ci riconosce / lui sa / e contamina le nostre ore. Ci chiama con diritto – anima mia – ci precipita nella sua notte. Eppure dice al mandorlo – fiorisci – e i passeri accorrono / alla messa cantata dell’albero maggiore. Ora la parola è fatta scorza. Potremo stormire – forse – quando avremo foglie. Tommaso Di Brango
C’è una vita involontaria
Versi della malapena
Il nero totale è nel fissare
credevo esperta / ed ero impreparata. Nel giorno della cenere
Il me stesso spaventato – ti parla –
Dimmelo tu che devo fare.
Il tempo cronologico divenne oscillante Ci è imposto di stare – ora siamo alberi –
Non pensare alla morte / mentre la morte impera.
L’anima cieca se ne va lungo i muri.
La mala hora
Considerami – per favore – Il tempo. Il tempo si ricorderà dell’inciso Rendimi esperta del sentire più profondamente.
Vengo dallo scarto / sono il penultimo.
Gli occhi giustiziati / il corpo spianato
Guarda – mi disse – è stampato a lettere cubitali.
Uno ad uno /
all’appello.
Al di qua dei nuvoli
A colpi di versi / come una contesa
Muerte querida – compañera muerte
A voce alta / o con un sussurro?
Abbi cura del nome che deve attraversare l’aldilà.
I luoghi dei labirinti
Chi mi venne in sogno stanotte
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