Racconti di Antonio Cavallaro


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Una notte del '70 a Lucerna
Quella serata a Lucerna si stava trascinando stancamente, pochi clienti, qualche coppia che preferiva starsene nella penombra a parlare fitto-fitto piuttosto che cimentarsi sulla pista da ballo e noi continuavamo senza entusiasmo a suonare per i pochi che seguivano le nostre note, o forse facevano finta per darsi un tono ed alla fine di ogni brano comunque ci omaggiavano di un rachitico applauso di circostanza.

Era quasi mezzanotte, e sapevamo che bisognava andare avanti almeno fino alle quattro, nelle brevi pause si ingollava un goccio di whisky per tenersi su, ma con molto ghiaccio e soda per non finire mezzo sbronzi a ciondolare sulla pedana.

Durante una di queste pause, dal buio del piccolo tunnel d’ingresso vidi d’un tratto avanzare una donna favolosa, bella come solo le svizzere possono essere, quando sono veramente belle, un ovale perfetto incorniciato da una zazzera bionda, curatissima, abito lungo da sera con uno spacco birichino che metteva in mostra ad ogni passo una gamba perfetta. Il maître l’accompagnò ad un tavolo guardandola con ammirazione, si sedette con eleganza, accavallò le gambe con un movimento così perfetto che non mi permise di dare una sbirciatina più a fondo nel segreto delle sue gambe. Spostai lo sguardo verso l’ingresso per vedere chi fosse il fortunato accompagnatore, che immaginavo attardarsi presso il guardaroba, ma, dopo qualche minuto, nessuno si affacciò nella sala.

La splendida creatura era sola!

Il cameriere si avvicinò, lei ordinò una bibita e cominciò a guardarsi attorno, ovviamente la prima occhiata fu per il piccolo palcoscenico sul quale noi ci esibivamo a pochi metri dal suo tavolo d’angolo, il mio sguardo incontrò il suo, sorrisi meccanicamente e anche lei mi sorrise.

Il capo intanto ci chiamò per il prossimo brano e così mi accorsi che anche i miei compagni avevano puntato i loro occhi famelici su quella fata.

Suonai e cantai con maggiore partecipazione never dreamed you'd leave in summer, splendido brano di Stevie Wonder, che lei sembrò apprezzare perché alla fine mi applaudì guardandomi con un sorriso smagliante, pregai il capo di lasciarmi cantare alcune altre canzoni del mio repertorio e la mia voce vibrava solo per lei, volevo piacerle, volevo incuriosirla …… la volevo e basta!

Intanto anche alcuni soliti avventori del locale, eternamente a caccia di avventure, l’avevano notata e, uno alla volta, le si erano avvicinati chiedendole di ballare, con garbo ma con fermezza rifiutò tutti, finché capirono che non c’era niente da fare e la lasciarono in pace.

Alla prima pausa, mi feci coraggio, scesi dalla pedana e mi avvicinai al suo tavolo, le chiesi se gradiva la nostra musica e se potevo ordinarle qualcosa, mi rispose affermativamente, mi invitò a sedere, ma volle essere lei a offrire il mio drink, il cameriere, siciliano e amico, mi diede una strizzatina d’occhi che non mi fece piacere, pensai che se lei l’avesse notato avrebbe potuto scambiarmi per il solito “frauen-jaeger” (cacciatore di donne) del sabato-sera, ordinai seccamente un martini, senza dare confidenza all’amico.

Le chiesi come mai fosse sola, un’interessante donna come lei, e mi rispose che era single e che aveva voglia di uscire, ascoltare un po’ di musica dal vivo senza l’assillo di dover partecipare alle banali conversazioni dei soliti amici, nei soliti bar del centro, dove si tirava tardi, bevendo e raccontando banalità. Aveva letto sul quotidiano cittadino che in quel locale si esibiva un gruppo italiano ed era venuta per la curiosità di ascoltare musica italiana, che le piaceva molto. Ed io avevo cercato di impressionarla con brani americani ed inglesi, mi davo mentalmente dello stupido, mentre lei mi parlava quasi sussurrando con una voce melodiosa in un tedesco raffinato senza le pesanti e rudi inflessioni tipiche del dialetto svizzero.

Fui chiamato dai compagni e volli cantare un paio di canzoni italiane, “Vedrai, vedrai” di Tenco e “A chi” di Fausto Leali, che lei sembrò gradire moltissimo.

La serata intanto volgeva alla fine e lei, tra un frullato e una pausa a chiacchierare con me, non si mosse dal suo posto.

Quando eseguimmo l’ultimo brano, mi avvicinai per salutarla, non avevo il coraggio di chiederle il telefono, ma fu lei che mi trasse d’impaccio dicendomi:”io ho un po’ di fame, perché non mi fai compagnia e andiamo a fare uno spuntino da qualche parte?”, non credevo alle mie orecchie, le dissi di si, la pregai di attendermi qualche attimo, andai dagli altri e li implorai di fare loro la mia parte di lavoro; mi lanciarono delle occhiatacce, ma accettarono invidiandomi da morire.

Uscimmo e le chiesi se dovevo prendere la mia auto, ma lei si era già avviata verso una MG rossa fiammante e mi invitò a prendervi posto. Mise in moto e guardandomi di sottecchi, avviò il motore e l’auto scivolò sull’asfalto bagnato, dolcemente senza sussulti.

Dalla radio la musica inondò il piccolo abitacolo, il suo profumo delicato mi inebriò, mi sembrava di volare, la stanchezza ebbe il sopravvento, chiusi gli occhi e mi appisolai. Dopo pochi minuti che mi sembrarono eterni, la macchina si fermò ed io mi svegliai, chiesi scusa vergognandomi come uno scolaretto, ma lei ridendo di gusto si avviò verso un portone.

Non vidi insegna di bar, pub o ristorante, la guardai interrogativamente e, sempre sorridendo, lei mi rispose che a quell’ora il locale più sicuro e comodo che conosceva era ……. casa sua.

Prese una chiave dalla borsetta aprì il portone, e con un cenno del capo, mi invitò a seguirla.

Ero stanco, ma in quel momento niente poteva fermarmi, la seguii trepidante, salimmo al quarto piano con l’ascensore, mi precedette nel suo appartamento arredato con molto buon gusto. Mi invitò ad accomodarmi sul divano, lo feci subito con piacere, sprofondai nel grande sofà bianco, rivestito di una stoffa calda ed accogliente, mi tolsi la giacca e aspettai che lei tornasse dal corridoio dove era sparita appena entrati.

Dopo qualche minuto riapparve in una splendida vestaglia di un celestino chiaro che metteva in evidenza un corpo sinuoso e particolarmente promettente.

No, cari maschietti non andai all’arrembaggio come un assatanato; niente di tutto questo. A parte la stanchezza, rimasi bloccato per l’atmosfera di profonda intimità che si era creata in quell’ambiente dove il tocco femminile si intuiva in ogni angolo. Aveva acceso, senza che me ne accorgessi, un qualche apparecchio dal quale veniva una musica dolce che invitava alla rilassatezza; mi versò della coca-cola in un bicchiere aggiungendoci del whisky con ghiaccio, avevo sete e bevvi con piacere, si sedette al mio fianco, le carezzai delicatamente il viso bellissimo e lei si rannicchiò sul mio petto dandomi ogni tanto dei leggeri baci sul collo e sulle guance; le affondai una mano nei capelli setosi la attirai ancor più a me e la baciai a lungo sulla bocca.

Non so quanto durò quel bacio, ma subito dopo fummo "trascinati dai sensi che avevano infiammato i nostri corpi" (come si leggeva nei romanzi d'amore per ragazze per bene), dalla sua pelle emanava calor bianco con un leggero indefinibile profumo, ci ritrovammo completamente nudi e facemmo l’amore lì sul divano senza fretta, con quella calma e quella tenerezza che tra una coppia è possibile solo dopo una lunga conoscenza.

Ci infilammo dopo nel suo letto e ci addormentammo avvinghiati l’uno all’altra.

Mi svegliai tardissimo, doveva essere mezzogiorno passato, sentii trafficare nel cucinino, mentre una musichetta a volume bassissimo e un profumo di caffè aleggiavano nell’aria. Rimasi lì, finché non apparve sulla porta con un vassoio nelle mani.

“Buon Giorno” – mi disse sorridendo – “dormito bene?”.

“Meravigliosamente” – risposi.

Poggiò il vassoio sul letto, due enormi tazze di caffè troneggiavano in mezzo a dei pasticcini. Bevvi un sorso di quel liquido che non aveva niente a che fare con l’espresso che mi facevo io, quindi mi porse con le labbra un biscotto che io strinsi fra le mie restando qualche attimo in contatto. Ridendo mangiammo tutti i pasticcini. Dopo qualche piccola effusione, mi alzai, feci una doccia e mi rivestii.

A quel punto cominciai a riflettere su quanto mi era accaduto e pensai che quella bella donna di 35 anni, mi aveva forse “usato” per dare sfogo alle sue voglie e adesso mi avrebbe scaricato elegantemente con qualche moina e qualche vaga promessa.

D’altronde il tutto era avvenuto così in fretta, che, pensandoci bene, non potevo aspettarmi chissà quale grande profferta d’amore.

Per un ragazzo del profondo sud, che per scambiare solo due parole con una ragazza, giù al paese, doveva usare mille sotterfugi per evitare pettegolezzi e maldicenze, una situazione come quella che mi era appena occorsa era qualcosa di incredibile, ma eravamo in un paese progredito e moderno, dove le donne avevano già raggiunto la consapevolezza delle proprie scelte senza condizionamenti di sorta e quindi mi convinsi che la bella Verena, si chiamava così, probabilmente aveva sperimentato quel tipo di “pesca” chissà quante altre volte.

Al pensiero, sentii una fitta dolorosa in petto, un sentimento di sorda gelosia mi pervase l’anima. Nella mia mente cominciarono a scorrere delle immagini di scene di sesso selvaggio che vedevano lei protagonista con uomini diversi, magari qualcuno anche da me conosciuto.

“Probabilmente” – pensai – “se fosse andato Franco, il batterista, al mio posto a farle compagnia al tavolo, lei lo avrebbe attirato lo stesso a casa sua”.

cominciai a immaginarla come una perversa mantide religiosa e, col tumulto nel petto, le chiesi con tono secco e duro se poteva indicarmi come fare per raggiungere il parcheggio dove avevo lasciato la mia macchina.

Intanto si era vestita e aveva indossato un delizioso abitino con gonna a campana appena sopra il ginocchio, mi puntò addosso due occhi verdi crucciati con un’espressione così triste da farmi quasi dimenticare tutti i pensieri malevoli di prima.

“ Come, vuoi già andare via? Oggi è domenica, pensavo che avremmo passato la giornata insieme, volevo condurti in un ristorantino sul lago…..” .

Non la feci finire, non ricordo più cosa le dissi esattamente, ma ormai avevo preso la mia decisione e testardo come un mulo, insistetti nell’affermare la necessità di andarmene, sapevo che me ne sarei pentito, ma non feci marcia indietro.

Tante altre volte poi, nel corso degli anni, questa mia testaccia dura mi portò a commettere errori di valutazione che mi comportarono anche gravi problemi e disagi.

Quando vide che ero irremovibile nella mia decisione, mi accompagnò al parcheggio del night-club, ci scambiammo indirizzo e telefono, promisi che ci saremmo rivisti da lì a poco, ci baciammo e, mentre salii in macchina vidi spuntarle due lacrime sotto le ciglia che cercava di dissimulare con uno sforzato sorriso.

Avrei voluto scendere, prenderla fra le braccia, stringerla con tutta la mia forza e magari gridare: “ti amo, ti amo, ti amo!”. Ma non lo feci, innestai la prima e partii sgommando sul pietrisco del parcheggio.

Andò proprio così? Chissà ...
 

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