Racconti e saggi di Reno Bromuro


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Reno Bromuro poeta, scrittore, commediografo nato a Paduli (BN). A sedici anni rappresenta la sua prima commedia, nel 1957 fonda a Napoli il «Centro Sperimentale per un Teatro neorealista», inizia il cammino per la totalità del teatro, basato sull’attore, unificando la globalità scenica. Ha rappresentato trentacinque commedie. Oggi è critico ufficiale di «Poeticamente» e continua il discorso sul teatro «unificato» dove l’attore è il perno dell’opera.
Ha pubblicato libri di poesia, saggistica, teatro, e il manuale di Educazione Teatrale per la scuola media.


Leggi le poesie di Reno

8 SETTEMBRE 1943

Bugie e fuga fecero nascere il caos

Giovedì 2 settembre 1943, verso il tramonto  ritornavamo a casa dopo aver giocato per tutto il pomeriggio a “Bandiera”, poi qualcuno andò a studiare per gli esami di riparazione e rimanemmo in tre a divertirci a “guardie e ladri”. Per essere più liberi, vale a dire poter gridare a squarciagola senza dare fastidio a nessuno ci nascondevamo per il “malazzeo” (il magazzino in disuso da decenni) dove le terme di Traiano e l’orto di “Trecoglioni” facevano al caso nostro.

A pochi metri da Porta Columbro, c’è (o c’era) un larghissimo spazio dal quale si può vedere, in giorni sereni, Benevento. Ma quella sera rimanemmo imbambolati perché la città era avvolta dalle fiamme, non bruciava, era il sole rosso del tramonto che la faceva quasi fosse al centro dell’Inferno.

Noi ridevamo, con l’incoscienza dei ragazzi, ma una signora con molta più esperienza di noi, disse che aveva visto quel cielo una sera del 1935 e dopo pochi mesi scoppiò la guerra in Africa. Rimanemmo a bocca aperta; poi riprendemmo il gioco come se nulla fosse accaduto.

Ma la previsione della Signora, con il cesto in testa, era giusta. Il Paese non sapeva niente ma venerdì 3 il generale Eisenhower, Comandante delle Forze Armate alleate, autorizzato dai governi americano e inglese e nell’interesse delle Nazioni Unite propone, al Maresciallo Badoglio, Capo del Governo Italiano la resa senza condizioni, che accetta le dodici ferree condizioni cui ci si dovrà attenere.

Mercoledì 8 settembre 1943 alle ore 19,45, la radio blocca le trasmissioni in programma e in pieno silenzio si ode la voce di Corrado:

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta.

Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».  

Nessuno, seppe niente, neanche i comandanti delle forze armate che il Capo del Governo Badoglio aveva mandato segretamente il generale Castellano, a trattare la capitolazione e questi il 27 agosto portò a Roma un testo di armistizio steso dagli angloamericani; che fu chiamato “corto armistizio”; cioè uno schema preliminare per la resa dell'Italia. Il testo porta la data anticipata del 3 settembre, Le condizioni di armistizio sono presentate dal generale Eisenhower.

Subito dopo l’annuncio di Corrado, avvenuto alle 19,45 dell’8 settembre 1943, inizia il dramma dell’esercito italiano anche perché la notizia dell’armistizio fu seguita dal messaggio del maresciallo Badoglio che comunicava di aver chiesto l’armistizio al “generale Eisenhower e che la richiesta era stata accolta.

Nel giro di poche ore il dramma si trasforma in tragedia per centinaia di migliaia di soldati abbandonati a se stessi, nell’ora forse più tragica dall’inizio della guerra.

Il 9 settembre gli Alleati sbarcano a Salerno, dove rimangono bloccati alcuni giorni a causa della feroce resistenza che i tedeschi oppongono dalle colline che circondano la zona, ritardando l’avanzata verso nord. Alcuni gerarchi fascisti scappati in Germania dopo il 25 luglio - tra i quali Vittorio Mussolini, Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini, Guido Buffarini Guidi - dal quartier generale di Hitler lanciano un proclama che accusa Vittorio Emanuele Terzo e Badoglio di tradimento e annuncia la nascita di un nuovo governo fascista.

Ritornavamo dal Convento dei Frati Minori quando, dove la strada si divide in quattro direzioni, su quella che porta a Buonalbergo vedemmo tre auto con la bandierina sul lato sinistro,in bella vista;e Padre Ludovico,il Priore del Convento vi si parò davanti e si diresse verso la seconda salutando con umiltà, poi ci disse: “Ragazzi gridate viva il Re e salutate”. Che peccato non averlo visto!

Il 10 settembre i tedeschi ottennero la resa dei contingenti italiani posti a difesa di Roma. In quelle stesse ore, in molte località del Paese, da Sud a Nord nelle zone occupate dai tedeschi, gruppi di antifascisti si ritirarono sulle montagne per formare i primi nuclei di guerriglia. A questi "antifascisti politici" si aggiungeranno presto soldati sbandati, o altri giovani per i quali, come afferma Guido Quazza, la scelta della resistenza era quasi "esistenziale", fondata su una spontanea volontà di reagire all'occupazione tedesca, in un tentativo di rivincita contro il fascismo. Inizia ufficialmente la Resistenza.

L’11 settembre dai microfoni di radio Bari il re con un filo di voce annunciò, dopo due giorni, il suo trasferimento nell'Italia liberata: "Per il supremo bene della Patria che è sempre stato il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell'intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di re, col governo e con le autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale...".

Il giorno dopo il piano di invasione tedesco è concluso e il Paese è diviso in due zone, il Regno del Sud e l'Italia "occupata" al nord, dove Mussolini, dopo essere stato liberato sul Gran Sasso, per ordine di Hitler, costituisce la Repubblica Sociale Italiana.

Scrive Silvio Bertoldi: Re, ministri e generali, lo Stato in fuga. La cronaca delle drammatiche ore di quell'8 settembre 1943

«Alle cinque della sera, l’ora fatale in cui Ignacio Sanchez, il torero di García Lorca, affronta la morte nell’arena, Vittorio Emanuele III comincia a prepararsi a lasciare Roma. È l’8 settembre 1943, un sereno mercoledì che prelude a un dolcissimo autunno, e il re ha 74 anni. Il ministro della Real Casa, Acquarone, ha telefonato che il Quirinale è ritenuto più sicuro di Villa Ada, meglio trasferirvisi. Sarà il primo passo di un itinerario peraltro previsto e destinato, nell’ipotesi, a conclu-dersi in Sardegna, per sfuggire a una eventuale cattura da parte dei tedeschi. Si è pensato a tutto nel caso d’un abbandono della capitale: due cacciatorpedi-nieri dovranno prendere a bordo i sovrani e portarli alla Maddalena, beni e oggetti preziosi sono già in Svizzera, sedici milioni, per affrontare le prime esigenze, diciassette valigie per il viaggio, carte e documenti in una borsa. Alle 18.15 precise la Fiat 2800 dell’autista Baraldi varca il portone della reggia. Vittorio Emanuele ed Elena si ritirano nei loro appartamenti. Il preludio della fuga di Pescara è questo.
Ma gli avvenimenti precipitano ed è difficile dar conto in breve d’ognuno di essi. La cronaca segnala l'improvviso ritorno del sovrano a Villa Ada, come per un cessato allarme, e subito dopo l'altrettanto improvviso ritorno al Quirinale per un improvvi-satissimo Consiglio della Corona. È ormai certo che Eisenhower annuncerà alla radio in serata la firma dell'armistizio da parte dell'Italia e coglierà di sorpresa governo e militari, impreparati all'evento e chissà perché convinti che l'annuncio sarebbe stato dato il giorno dodici».

I primi reduci sporchi, affamati, cominciano ad affollare la via di Ravano, la quale essendo stretta li faceva camminar incolonnati uno dietro l’altro.

Fu proprio il 12 settembre che si sparse la voce che alla stazione ferroviaria di Apice c’erano vagoni di derrate e subito noi ragazzi ci organizzammo e partimmo per la strada sterrata della “femmina arsa” che ci permetteva di camminare per tre quattro chilometri e non dodici e più che richiedeva la strada normale.

Fu quel giorno che scrissi:

«Ad Apice un treno carico di vitto
dicono per le strade di Paduli;
siamo corsi pieni di speranza.

I treni sono tre nella stazione
la gente più di mille e scalmanati
m'intrufolo nel «Silos»: c'è riso e grano»…

Al ritorno vissi la prima tragedia della mia vita, per giungere prima in paese lasciai la strada e m’incamminai per Montesanto, cantando a squarciagola e saltando da un albero all’altro, quando, una voce gridò: “Acthung”, continuai a correre, sulle spalle avevo lo zaino militare di papà, e fui raggiunto da una scarica di mitra. Corsi per la discesa a zig zag tra gli alberi e respirai solo quando mi sentii al sicuro.

Ai miei non dissi niente, altrimenti mi avrebbero proibito di uscire.

E dal giorno dopo la via sterrata di Ravano divenne la nostra casa, scrutando, se tra la fila interminabile di uomini, ci fosse anche il viso di papà e di zio.

I reduci, per aggirare i posti di blocco dei tedeschi, scendevano dai treni colmi,dove erano attaccati come acini al grappolo, alla stazione di Paduli, salivano in paese per rifocillarsi,per fortuna molti padulesi avevano fatto man bassa alla stazione di Apice, per cui i reduci potevano non solo saziare la fame arretrata ma portarsi dietro anche la riserva per rifocillarsi fino a quando non sarebbero arrivati alle loro case, in Puglia, in Basilicata, in Calabria e Sicilia.

Tutti i giorni, passavo in rassegna la carovana di reduci fino alla stazione ferroviaria di Paduli, dove passavo l’intera giornata sgolandomi ad ogni arrivo di treno, ma mio padre e mio zio non risposero all’appello fin al Natale del 1944 mio padre e a Pasqua 1945 il fratello, zio Giovanni.

I ricordi più drammatici li ho raccontati in “Occhi che non capivano”  (poesie scritte come un diario giorno dopo giorno dal 1943 al 1945 con una pagina aggiunta nel 1968) che è piaciuto molto. Non ho più venduto tante copie quante ne vendetti allora nel 1975.

Chiudo questo mio ricordo dell’8 settembre 1943 con la lirica 14 settembre 1943, che ben si adatta, a mio parere al racconto dei ricordi di quei giorni: racconti e note che non si trovano in nessun libro di storia. Una lirica augurale anche per gli orfani del Medio Oriente, nella speranza che l’ultimo verso sia di buon auspicio.

«Interminabile colonna di carne
lungo le rive del Tammaro
in quei giorni di settembre.
Corpi, anime sozze
di pidocchi
di vergogna

occhi che non capivano
cercavano occhi vergognosi.

Uno, ai piedi di una vite
in mano, un grappolo d'uva:
- Non voglio tornare a casa! -
e piangeva.

Fetore di pelle:
non pidocchi giganti
mangiano giovane carne
non mia;

vergogna morde l'anima:
eravamo duemila

due soltanto ci hanno disarmato:
non voglio vedere mio padre!

Occhi che non capivano
cercavano occhi vergognosi.

Dritto, sulla collina
si staglia verso il cielo
come accusatore:
uomo in grigio-verde
armato fino ai denti.

Stupore, meraviglia,
domande che si intrecciano
risposte non avute...
Michele era armato

non sapeva perché.
Fedele al giuramento
era tornato a casa
ai padulesi non più
da ebete, da eroe.

Occhi, che non capivano cercavano
tra carne putrefatta dai pidocchi
propria carne pieni di speranza.

Un grido che sapeva
di prima liceo,
una parola petrarchesca
scosse lo stupore, l'apatia:
             «Italia mia
              vengo a vendicar
              l'altrui vergogna!»

Ancora imberbe, armato di bastone
corse per lo scosceso pendio: gridò!.

Una scarica di mitra!...

Il volto di fanciullo
gli occhi innocenti
aperti verso il ciclo
il corpo inerte
ai piedi dell'ulivo
sembrano dire: BASTA!

Occhi che non capivano, i miei,
cercavano non vergogna...

Piansero, piangono
e gridano: basta».
 


«Poeti, abbandonate i libri, scrivete e conoscetevi su internet»

vi suggerisce Nanni Balestrini ma…

                   attenti all’esca!…                                         

Quando ho letto l’articolo della Fusco su Poetilandia, la città virtuale dei poeti, dove le correnti poetiche si intersecano, si avvicendano e si confrontano generazioni di poeti di ambo i sessi mi sono sentito riportato agli anni ’60-‘70.

Vedendo il nome di Nanni Balestrini mi sono subito domandato: non gli è bastato aver fatto, con i suoi compagni del Gruppo63 dell’anno 1963 il più caotico del secondo Novecento? Credettero di dare «Una brusca sterzata alla letteratura, invece condizionarono la Storia e compromisero forse irrimediabilmente le opportunità di un certo sviluppo civile. Fortuna che oggi delle intenzioni di portare il caos nella letteratura italiana, è rimasta l'immagine di un'epoca che fu una promessa non mantenuta».

A dimostrazione vediamo che le numerose proposte della Neoavanguardia sono sfumate. Evidentemente Balestrini sente la nostalgia e vuole ritentare l’esperienza di quel tempo attraverso internet proponendosi, forse, ancora una volta come “trainer” (ma il fatto è riferito al futuro).  «La verità è che ciò che caratterizzò la realtà del 1963; già nel 1967 non c'era più e né credo che nel nostro periodo si possano trovare le condizioni».

Non ha capito il “famoso poeta” che il tempo è cambiato. Possibile che scrivendo i suoi libri non se ne sia accorto? Non si rende conto che il caos che generò il Gruppo 63 allora, oggi non potrebbe attecchire per nessuna ragione, specialmente in internet dove i poeti non sono all’altezza di creare il medesimo caos.

Per fare chiasso intorno al loro pensiero sulla poesia, principalmente, organizzarono un convegno che si svolse dal 3 all’8 ottobre all’Hotel Zagarella di Palermo, dove si riunirono su invito di Francesco Agnello quale integrazione alla «Settimana Internazionale di Nuova Musica». «Il connubio tra letteratura e musica non sorprende e prelude all’interculturalità che caratterizzerà il movimento».

Un lustro prima, il 1958 e il ‘59 c’era stato qualche esperimento radiofonico di Umberto Eco e Luciano Berio, sul testo dell’Ulisse di James Joyce, con il quale avevano dato il via alla stesura di un saggio che avrebbe dovuto costituire il testo fondamentale della Neoavanguardia.

«Al Convegno parteciparono i più bel nomi della letteratura italiana, guidati dai Poeti Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta e Edoardo Sanguineti.
Alcuni, però, videro che dal caos non può derivare l’ordine lasciarono il gruppo che per esaminare il suo stato di salute, indisse un secondo Convegno.
Balestrini aveva accettato la proposta di Francesco Agnello e il Convegno si svolse nell’ottobre 1973, come dieci anni prima, in seno alla  Settimana Internazionale di Nuova Musica.
Fu l’ottobre nero del Gruppo 63 che in silenzio si disperse, anche se tentò con la disperazione nel cuore di ricostituirsi.  Nanni Balestrini, infatti, che aveva curato, insieme con Alfredo Giuliani, un’antologia di poesia, intitolata I novissimi (Edizioni del Verri 1961), una raccolta di lavori di giovani poeti, «perché insieme con Giuliani, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti e Antonio Porta volevano esplorare nuovi territori – linguistici, stilistici e contenutistici – al di fuori dei canoni tradizionali, che si ispirano ad una poetica dell’oggetto, posta in antitesi con il Neorealismo, e avrebbe rappresentato la prima manifestazione ufficiale di quella che sarebbe stata definita Neoavanguardia».

Il caos fu rumorosissimo più del 1963 poiché fu tirata in ballo «l’Opera Aperta di Umberto Eco, che scatenò un putiferio di critiche da parte del mondo intellettuale dominante, che si confrontò con toni accesi al limite dell’invettiva anche sulle tesi esposte nel libro, destinato a costituire il  pilastro portante della neoavanguardia».

Precedentemente, nel 1959, Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini, mostra crudamente la condizione del sottoproletariato romano nel secondo dopoguerra, ma Pier Paolo Pasolini «supera l’orizzonte ideologico del neorealismo, si libera almeno in parte dai condizionamenti culturali che avrebbero potuto snaturare la rappresentazione di un mondo che egli conosceva fin troppo bene. Così la miseria materiale del popolo si riflette nella miseria morale da cui sono irrimediabilmente segnati molti dei personaggi pasoliniani».

Un anno più tardi, nel 1960 Alberto Arbasino pubblica un articolo in cui indica in due autori controversi, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori oltre che se stesso, i continuatori ideali della stirpe stilistica di Carlo Emilio Gadda.

Ora, forse, il famoso Poeta e Romanziere, nato a Milano il 2 luglio 1935, essendo un veterano del computer (nel 1963 compose la prima poesia realizzata con un computer) sente la nostalgia e invita i poeti al colloquio attraverso il web.

Oppure è perché sente che le radici esplodono, scalpitano e rivogliono uno «sperimentalismo di rottura dei consueti equilibri linguistici una rivisitazione dei temi religiosi, osservati mediante il dualismo tra spirito e corpo, amore e dolore, luce vitale ed oscurità della morte»; un contrasto mai risolto dal 1954 ed ora lui vorrebbe che questo disaccordo: eterno dualismo sempre in lotta tra di loro per ogni uomo che voglia farsi chiamare poeta; perché l’Io creativo e il Sé razionale non andranno mai d’accordo se c’è caos nell’opera, solo se ci sarà il connubio l’autore avrà scritto un’opera di Arte Maggiore, fosse la fonte della rivoluzione caotica della cultura italiana come accadde nelle due esperienze negative: 1963/1973.

Lo aveva anticipato chiaramente Umberto Eco nel suo libro “Opera Aperta” già nel 1962: che la sua opera era «...un’indagine di vari momenti in cui l’arte contemporanea si trova a fare i conti col disordine». Certamente si riferisce alla «reazione dell’arte e degli artisti [...] di fronte alla provocazione del Caso, dell’Indeterminato, del Probabile, dell’Ambiguo, del Plurivalente; la reazione quindi della sensibilità contemporanea in risposta alle suggestioni della matematica, della biologia, della fisica, della psicologia, della logica e del nuovo orizzonte epistemologico che queste scienze hanno aperto».

Una proposta “sistemica” all’interpretazione dell’arte, che interagisce con le varie discipline che trovano nei mass media strumento potente di divulgazione, che influenza e viene a sua volta influenzata.

«L’entusiasmo sperimentato dai membri del Gruppo 63 rifletteva la genuina ricerca che stava prendendo corpo in tutto il mondo, di un nuovo stile di vita e di pensiero, in opposizione alle resistenze di coloro che si sentivano impegnati nella conservazione dei valori e nelle abitudini di un’Italia contadina e paesana e nella difesa degli interessi di gruppi radicati nel tessuto socio-economico».

Le idee del Gruppo 63 si contrapponevano a una “conservazione culturale” capeggiata da Italo Calvino, Giorgio Bassani, Cassola, Fortini, Morante, Moravia, Pasolini e Vittorini i quali occupavano posti di controllo della cultura, nelle case editrici e nelle università:una generazioni di intellettuali sopravvissuta alle angherie del Ventennio, da cui era riemersa.

Il Gruppo 63 per riordinarsi prese l’abitudine di non mettere in discussione la “qualità” dei testi o la personalità elevata o meno dei personaggi, ma non accettava le tematiche del Neorealismo, del Crepuscolarismo, dell’Intimismo ancora vigenti durante la situazione della società cambiata, perché vedeva in quelle opere in quei personaggi la forte volontà di voler ignorare l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, e il nuovo paradigma tecnico-scientifico, in rapporto al resto del mondo.

«Un testo ispiratore di più di un componente del Gruppo 63 fu La fine dei modelli, di Alberto Savinio; il titolo dell’antologia curata da Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, “I novissimi”, anticipa la Neoavanguardia e rispecchia perfettamente il senso contenuto nel saggio di Savinio: “novissimi” in senso di ultimi arrivati».

“Poeti abbandonate i libri, scrivete e conoscetevi su internet” sembra l’inizio di un nuovo manifesto letterario che nel 1963 e poi nel 1973 è rimasto nelle pieghe del tendaggio che ornava il luogo dei due Convegni; perciò poeti in erba scrivete, conoscetevi, discutete tra di voi in internet, ma state attenti “all’esca”: non perdete di vista l’accordo meraviglioso che porta al connubio dell’Io creativo e del Sé razionale, solo in questo modo siate certi avrete senza dubbio la gioia di fare Arte Maggiore.

Balestrini è un leader, ha fascino e parlantina convincente e facilmente qualche poeta imberbe o donna in cerca di nuove emozioni, perché rimasta sola, sono facili prede.

Noi dell’A.I.A. “Poesia della Vita” durante il nostro primo Convegno che si svolse a Roma dal 19 al 22 marzo 1976, nello stilare lo Statuto pretesi che nell’articolo 1° ci fosse scritto: «L’A.I.A. “Poesia della Vita”» reagisce contro il caos del Gruppo 63 e l’incomprensione dell’Ermetismo per una poesia che sia chiara e canti la Vita; presenti Francesco Grisi, Selim Tietto, Marcello Eydalin, Paolo Diffidenti, Giorgio Carpaneto, Luisa Massari, Arden Borghi Santucci, e altri venuti da ogni parte della penisola, accettarono la mia proposta e plaudirono al nostro movimento poetico.

Bibliografia

I Novissimi, poesie per gli anni '60, con Pagliarani, Sanguineti, Giuliani, Porta (Ed. del Verri 1961).
(introduzione di “Opera Aperta”  I edizione del 1962)
Letteratura contemporanea – di A. Manetti – edizione Bignami
Novecento letterario - di Falqui – Vallecchi Editore
Storia della letteratura italia contemporanea (1940-1945) – di G. Manacorda – Ed. Riuniti
Relazione primo e secondo convegno A.I.A- “Poesia della vita” – Archivio Associazione PdV


nella poesia musicale di Lucia Luceri (aka Lulu)

CANTO D’AMORE

per sperare di avere sempre nel ritorno dell’onda
 

Lucia Luceri, aka Lulu, scrive da quando a malapena riusciva a tenere in mano la matita. Afferma: «Per me scrivere è una necessità non una scelta, ogni emozione immediatamente mi spinge a riempire un foglio bianco, ad alzarmi la notte per scrivere una frase, un pensiero, per paura che vada perduto e su cui poi costruire quello che sento.. Scrivo poesie d'amore, perché l'amore lo vedo in ogni cosa, e so quanto è bello averlo... Credo che ogni essere umano debba vivere le sue stagioni e i momenti dei sogni e della fanciullezza, perciò credo che la natura mi dia una mano lasciandomi l'espressione e il fisico infantile; un dono di cui ringrazio Dio ogni giorno, forse io sono una... bestiolina che segue l'istinto più che la ragione, ma non so essere diversa. Amo la vita e la vita ci parla in mille modi, con un cielo stellato che non è mai uguale, con un mare in burrasca o un tramonto rosso sangue come le nostre ferite...»

Ha partecipato a vari concorsi letterari e, dovunque, ha ricevuto una segnalazione un elogio, il primo premio anche e questo la gratifica, ma non lo rende pubblico per pudore o perché è gelosa della vita privata. Quando pubblica una poesia lo fa con la speranza che almeno un cuore, uno solo, capisca il suo messaggio, il resto non conta.
 

LETTERA D’AMORE

Mi appari nelle pieghe del buio
mio bellissimo tormento,
e sussurri malinconiche parole
navigando i miei pensieri.

Tue sono le braccia della mia notte
e mi riempi di te,
di baci e lusinghe d'amore
senza pudore, senza vergogna.

Ogni mare ha senso
solamente per la riva
su cui andrà a morire,
e tu sei il mio mare.

Ma... è morire?

Un fatto è scrivere poesie, altro è capire la Poesia. Ed io cercherò di leggerle insieme a voi per capire la natura di quest’amore per tutte le cose. Diceva una mia amica pittrice, per vivere l’amore dalle mie opere mi devo sentire umile al punto d’amare anche la polvere, togliendola con delicatezza, con amore appunto.

L’amore cui è intrisa la lirica che abbiamo appena letto è di una tale portata che fa pensare all’ampiezza dell’arcobaleno dopo una pioggia torrenziale, aprendo il cuore alla più viva certezza di un’altra vita di là della terra:

«Ogni mare ha senso

solamente per la riva

su cui andrà a morire,

e tu sei il mio mare.


Ma... è morire?»

Uno dei suoi ammiratori mi ha preceduto ed ha scritto di Lucia, riferendosi alla poesia «Poesia di Ieri»: «Che penna magistrale, che tocco incantevole. Poesia che nasce dal cuore triste di che amore non ha più. E in questo momento capisco bene le sensazioni che descrivi, e le sento dentro me, trapassarmi come una lancia affilata». La piacevolezza della lettura delle liriche di Lucia Luceri è nella semplicità espressiva, non c’è ricerca di stilemi o di onomatopee, ma solo della semplicità scevra da complicazioni intellettualistiche. Sembrano parole trite e ritrite, espressioni di tutti che sembrano scivolare nella banalità, invece la robustezza della lirica, l’espansione della creatività poetica, il pregio letterario, sta proprio in questa ricerca della semplicità verbale.

 

POESIA DI IERI

Scivola il mio tempo
tra pensieri sfumati
di momenti sbagliati.
Vi entro senza voglia
e mi spoglio senza amore.
Non serve.

L'alba mi veste
di un nuovo oggi
che non ha sapore.
Il mio sguardo è qualunque,
è quello di chi è amato,
ma senza amore.

La definizione si fa speciale, raffinata, piena della sensibilità femminile, dando alla lirica “Profumo di poesia”, amore grande, universale che raggiunge l’intimo del lettore regalandogli l’ebbrezza necessaria per ramificare dentro il sentimento fortemente sentito e divulgato con la stessa intensità. Vestendolo d’amore gli offre il seme e il senso reale del vocabolo «LIBERTA?», riscattandolo dalla schiavitù dell’egoismo e dell’incomunicabilità, soprattutto riportando alla memoria parabole e fatti del Vangelo, ci consiglia di annullare l’individualismo per il bene della collettività, se noi l’ascoltiamo possiamo veramente godere:

«L'alba (…)

di un nuovo oggi»

e lo sguardo di chi ha imparato ad amare gli altri come se stesso, rivolgersi al sole caldo dell’amore, con altri occhi, con altre speranze.

Il verso che all’inizio appare come un paesaggio brumoso con un cielo che sembra promettere pioggia, improvvisamente fa apparire bagliori argentati che rendono i vocaboli fluorescenti, i contorni sfocati che appaiono, nei primi quattro versi:

«Scivola il mio tempo

tra pensieri sfumati

di momenti sbagliati.

Vi entro senza voglia

e mi spoglio senza amore».

di una natura descritta con morbidezza e inducono a ricercare i “pensieri sfumati”  con compiaciuta malinconia. Una realtà che sa di sogno che potrebbe essere realtà? La scelta di scivolare nel tempo e colloquiare con due universi come un osservatore che ammira il quadro celeste nel tempo, s’innamora e poi lo descrive, vestendolo di una sottile ironia mentre va nel quadro da Lei creato e vi “entra senza voglia, spogliandosi senza amore”; ironia divertita, direi, impegnata in una ricerca verbale che si presti all’intento e la conduca al punto che si era prefisso.

In questi versi vi sono visioni riprese da lontano, dove i soggetti assumono sensazioni oniriche, poi sfumati verso un pallido orizzonte, tra piane e colline ondulate: ricercatezza del vocabolo e sottile ironia che diverte lo stesso Poeta, Lucia Luceri, sia quando il verso sfuma nelle tenui parole d’amore appena vergate, sia quando evoca, con crepuscoli malinconici, ornati di sottile ironia divertita, i momenti velati di nostalgia, l'Autrice riversa nelle liriche l'idillica atmosfera di un’anima ancora vergine, circondata e sommersa da una natura ora selvaggia, ora arsa, ora assolata che si alterna nell’anima sua.

 

VIAGGIO INTORNO ALL’UOMO

Ti ho ripercorso tutto
e a ritroso,
per stancarmi di te
per staccarmi da te.

Ho riaperto ferite
senza solchi né sangue
che non mi fanno male
perché lo hai fatto tu.

Instancabili mani
che senza sforzo
incidevano graffi
sul mio cuore naif.

Rilevo in queste liriche una straordinaria capacità di collocare costruzioni dell'uomo, tra il verde freschissimo dei prati e dei boschi, e il cammino a ritroso per staccarsi da un amore forse impossibile o incompatibile. I Settenari sono musica saltellante che abbracciano ferite riaperte senza solchi, rocce che non fanno male perché le ha fatte lui: “L’Amore”, perciò le mani sono diventate forti e instancabili per incidere senza sforzo, graffi sul cuore.

Le liriche che stiamo leggendo sono quadretti pregevoli fatti con le parole, sono sinfonie alate perché i versi sono musicali, perché i vocaboli sono intinti con i colori dell’anima; infatti, il Poeta mette a punto giochi verbali che si fanno di luce nei quali spazia la consapevolezza che l'Arte è libero intendimento. Dove l’amore, elemento descrittivo di ogni lirica, sintetizza i mutevoli stati d'animo della donna-Poeta, le liriche subiscono fascinose metamorfosi che denunciano una costante ricerca all'interno delle radici del proprio Essere.     

Lucia Luceri (aka Lulu) è soprattutto un abile narratrice di situazioni ed atmosfere, che descrive attraverso un uso del verso che spazia tra il settenario e il novenario, cercando innanzi tutto la musicalità che vibri insieme al colore, e il suo quadretto, che si fa linguaggio con sapienti velature, che acquistano di volta in volta un significato originale e Suo: tutto suo, nella determinazione del potere espressivo della lirica.

Quindi ogni lirica è un quadro figurativo per scelta, Lucia Luceri gestisce abilmente la tecnica della metrica, lasciandosi guidare dal dettato dell’anima e, creativamente dal potere interpretativo della mente, producendo liriche capaci di ridestare impressioni e sensazioni forti nel lettore.  

Il linguaggio poetico si sviluppa come un gioioso racconto e quando l’Artista è attratta dalle bellezze naturali che la sua anima evoca si anima di vigore estetico.

E TI PARLAVO DEL MARE

E ti parlavo del mare, ricordi amore mio?
Quella schiuma vezzosa
come trina di pizzo
che sulla spiaggia finiva la sua danza.

E ti parlavo del mare che canta, ricordi amore mio?
Perchè ogni cosa canta, anche l'amore,
quando l'amore c'è...amore mio
ed era un canto per voce sola.

E indossavo il mio abito bianco
io, agitata dal vento come trina di pizzo,
lo indossavo la sera per te, amore mio
che sordo e cieco mi lasciavi andare.

Sono onda di un mare che non canta
e marea che ora tace nel vento,
ma sognerei il tuo viso
se avessi ancora un sogno da sognare...

Il mare è la lavagna dove il destino di tutti si cancella, si segna, torna a cancellarsi, a segnarsi, senza fine. E per questo ha per sfondo il mare il tema fondamentale del lirica che stiamo leggendo, come il titolo potrebbe suggerire, «sono onda di un mare che non canta», perché vi è un rapporto tra vita e morte. La vita e la morte si specchiano l'una nell'altra, si compenetrano, si completano: sono forme, segno opposto di uno stesso mistero ciclico, eterno, indecifrabile. Si fermano forse il sole, la luna? Così le onde del mare, e ritorna il concetto espresso più su tra parabola evangelica e Vangelo: la morte non si ferma mai, perché è immortale, simboleggia l'immortalità, che è vita. La vita è come l’onda, si ferma sulla sabbia per ritornare imperterrita al mare e perciò non è la Morte che è negazione della vita, ma è la vita che comprende la morte, il mare che possiede l’onda e non l’onda il mare: la possiede come un dono del destino. Gli amanti, nel loro abbraccio, non si possono dire né veramente vivi né veramente morti.  Il mare è come la Morte ha una propria legge, non una soluzione di fuga: l'uomo è fatto per la vita, anche se sa di dover morire. Ed è anche regola morale: «credere e sperare in quel mare di là farebbe fatalmente sentire più male ancora questo mare di qua». Morte e vita sono, l'una rispetto all'altra, virile dialettica, parola di sfida lanciata da riva a riva: «se avessi ancora un sogno da sognare...»

*********************************

SE TI DICESSI CHE…

Inventavo i miei giorni,
quando alle ore
non sapevo dar risposte,
quando la notte
non volevo starmi accanto
per cercare una luna che non c’era.

Ora le nostre dita
scrivono nuova poesia,
e io sorrido al tuo sorriso,
mentre un grido di gioia si quieta
e adagia due respiri sul cuscino.

**************************

PER UN SOGNO

Non posso chiedere
con le mie dita nude,
ma posso amare e amo,

per due briciole
di niente
e un domani che non c'è,

e tu che mi vuoi sogno
e lo sarò, ma...
donna con un altro.


 

LA CONTEMPORANEITA’ DELLA POESIA
di

GIUSY MEDICO (in arte jalila)

POETA CHE GIOCA CON LE PAROLE

«Striscia, sussulta a ritmo incessante.

Inarca le membra avvelenate.

Fa tue le grida di questa finis-terrae,

dal grecale profumo e del perduto oriente».

Che cosa sappiamo del Poeta che gioca con le parole e le fa cavalcare come meglio crede? Si atteggia ad incantatrice di serpenti con quelle «Esse»: «Striscia», «Sussulta», «incessante»,ecc… il suo nome:Giusy Medico e comunica che è nata a Brindisi, ha fatto studi classici, giunta alla Maturità ha studiato legge; ha due figli e trascorre le sue giornate a fare la casalinga-sognatrice. Ama leggere, il teatro, il cinema ed ogni  genere di musica dove  prevale il blues. Attualmente vive in provincia di Bari e, «Afferma (non si sa ancora, lo scopriremo a mano a mano che conosceremo le opere fino a penetrare nel suo mondo poetico e capirlo, definirlo e goderlo): non posso definirmi poetessa, né scrittrice. Provo solo piacere a scrivere e a giocare con le parole, cercando di comunicare quello che, a volte, non è chiaro e che lo diventa solo quando esce fuori di me. Abbiate indulgenza nei confronti di chi semplicemente si rivela, senza nessuna pretesa, senza astruse costruzioni verbali. Sono solo me stessa, con la mia piccola verità».

E’ un’affermazione spicciola, una dichiarazione che potremmo definire un'aggiunta alle parole giocate con intelligenza, con una ricerca certosina per dilettare musicalmente, sullo spartito senza pentagramma, le parole più musicali possibili, ma con prepotenza di particolari in cui il modello rimane sommerso, però già vi si avverte lui proprio, Gabriele D'Annunzio; cioè, le liriche sembrano, in alcuni punti, come il canto gemello del Vate, odori, colori, sapori, e molta atmosfera, che ci trasporta dal semplice scenario all'azione, che la lirica si fa sfondo.

L’esempio con cui ho aperto il saggio è l’apertura verso… la fotografia da abbinare al gioco delle parole:

«La metterò a fuoco,

concedendomi un atto magico.

La fotograferò con la reflex,

su di un treppiede,

lasciando aperto l'obiettivo».

E nella pellicola impressa vi è una lunga striscia di rosso infuocato che s'intreccia col verde smeraldo degli alberi.

Naturalmente la cosa ha un valore meno che marginale anche nell'ambito delle sue Opere più seguite dai lettori e sono molti. Giusy come pochi nel web può contare tanti lettori, seguaci assidui e occasionali che commentano le sue poesie per mettersi in mostra più se stessi che per parlare della poesia in sé.

Ed ora parliamo del componimento «TARANTOLATA. NELLA TERRA DEI RI-MORSI»

«Striscia, sussulta a ritmo incessante.
Inarca le membra avvelenate.
Fa tue le grida di questa finis-terrae,
dal grecale profumo e del perduto oriente.

Liberati dalla possessione. purificati .
Assalta e difenditi, invocando gli dei
per infinito tempo.
Scuoti questa terra di ri-morsi,
chiedi grazia e pace.
Muori sfinita e risorgi con Dionisio,
preda ossessa di questo arcano destino.

Sottile veleno ti scaglia sull'orlo
del precipizio, a picco sul mare.
dove nessuna onda fa rumore.
Prega ed impreca, fai vortici di aria.
sì da sconvolgere il cielo.

Lacrime e sudore
sfinimento e dolce languore,
veleno che rilasci,
folle baccante,
terremoto di carne e di sangue».

Vi notiamo un quadretto di dei, ninfe e muse come si nota nei versi seguenti:

         «Scuoti questa terra di ri-morsi,

chiedi grazia e pace.

Muori sfinita e risorgi con Dionisio,

preda ossessa di questo arcano destino».

Se la metrica ci rimanda, agli esperimenti di un Arrigo Boito, di dannunziana memoria è l'«atmosfera»; aggiungerei, il gusto delle immagini e del linguaggio:

Lacrime e sudore
sfinimento e dolce languore,
veleno che rilasci,
folle baccante,
terremoto di carne e di sangue».

Qui l'andatura sintattica, il ritmo, sanno di Giovanni Pascoli cantilenante, ma l'immagine è prettamente dannunziana, ripeto, perché troppo precisa per giudicarla un incontro, forse casuale «delle lacrime, sfinimento e dolce languore»

Ancora, sempre nella stessa lirica appare il ricordo di certe ballate e madrigali di un Carducci già passato.

«Liberati dalla possessione. purificati .

Assalta e difenditi, invocando gli dei

per infinito tempo.

Scuoti questa terra di ri-morsi,

chiedi grazia e pace.

Muori sfinita e risorgi con Dionisio,

preda ossessa di questo arcano destino».

Vedete il terzo verso, quell'indeterminato, di affascinante intenzioni, «per infinito tempo», anche il titolo, arieggia alle nostre orecchie, D'Annunzio.

Si potrebbe pensare che questi sono episodi marginali più curiosi che espressivi; che, però, nel particolare momento della sua formazione, acquistano e conquistano una propria indennità, non foss'altro, di un’iniziale disponibilità a certi modi di far poesia che in Italia attraverso, le iniziative di ricerca del linguaggio e della fonetica di questi pochi poeti che fanno ancora onore alla Poesia che la stessa riesce a non andare a fondo nei confronti delle altre correnti poetiche mondiali.

Si potrebbe continuare, ma preferiamo che il lettore veda da sé, per esteso, le poesie che abbiamo scelto per comprender e spiegare il mondo poetico di Giusy Medico.

LEGGENDO LE STELLE – IMPROBABILE OROSCOPO

Prenderò la posizione della Stella Polare,
ferma,
mentre tutto intorno ruota.

La metterò a fuoco,
concedendomi un atto magico.
La fotograferò con la reflex,
su di un treppiede,
lasciando aperto l'obiettivo.

Ci sarà un puntino luminoso,
la mia centralità
e tutte le scie delle altre stelle
attorno.

Cerchi e semicerchi di un universo
che si disegna
senza condizionarmi,
in un ordine che non necessita
i miei innaturali sbilanciamenti.

Troverò in me quel puntino luminoso.
E il mondo continuerà a seguire
la propria perfetta linea.

Senza confusione.

Le parole si rincorrono, come grani di rosario, in tutte le direzioni; tutte con maestria s’introducono esplicitamente in particolari realistici di comodo nella sostenutezza d'insieme. Ma più curioso, perché simili caratteristiche di contenuti, di sintassi e di metrica puntano, con netto rifiuto per la superficialità, verso la riflessione, nei limiti del loro potere poetico, nel momento medesimo che subiscono il fascino della poesia riecheggiandolo.

Troverò in me quel puntino luminoso.

E il mondo continuerà a seguire

la propria perfetta linea.

Giusy Medico è dunque un bravo Poeta. Ha superato finanche l’emergente, perché nel sito dove ho trovato queste sue poesie è la più letta e seguita ed è lì che la sua Arte emerge senza necessità di clamori di pubblicità. Davvero non si capisce come mai, forse per difetto d'informazione, ho conosciuto tardi l’Arte poetica di questo, a me, ignoto poeta maturo per una poesia che faccia scuola aperta e manifesti contro chi fa ombra al crescere della sua bellezza che fuoriesce dalle parole come l’alba radiosa dalle nuvole del mattino.

MI SONO PERSA

«"sei bella"
e mentre lo dici non ti accorgi di accarezzare cicatrici.
"i tuoi occhi socchiusi"
e mentre lo dici non ti accorgi che sono pieni di sale.
"la tua bocca"
e mentre lo dici non ti accorgi che mastica vetro.

"sei mia"
e mentre mi prendi non ti accorgi che mi sono persa
nel labirinto delle suggestioni d'amore,
di quell'amore che tu ritrovi nel mio ventre
ma che io cerco ancora nelle tue mani».

II problema comincia a farsi vedere ed appare molto difficile, perché nasce:

«… mentre mi prendi non ti accorgi che mi sono persa

nel labirinto delle suggestioni d'amore,

di quell'amore che tu ritrovi nel mio ventre

ma che io cerco ancora nelle tue mani».

e finisce per mostrare il concetto dell’innamoramento, fino a far diventare l’amore semplicemente una farsa, nel solo modo a lei congeniale: farsa per come è narrato, farsa per quel che rappresenta, farsa perché sembra fatto per castigare il dolore e far trionfare la risata; ride Ella stessa con gli occhi chiusi a ciò che costituisce il concetto, dell'atmosfera incantata, ai fantasmi femminili, al sospiro di adorante elegia che percorre i versi e li ingentilisce.

Quest’atteggiamento è soltanto per rilevare che, nelle pagine in cui si legge lo smarrimento e l’annullamento dell’ego, oramai succube dell’amore, che tutto travolge pensiero e spirito, fa vivere la tragedia di Teseo perduto nel labirinto come ombra che dia risalto alla luce che i versi emanano.

In verità, fra i temi affrontati dalla Medico non ce n’è uno ricorrente, ciò dà poco altro di aiuto effettivo all'indagine critica che vuole rintracciare, sia pure  provocatorio, il parallelismo o gemellaggio di parole e concetti, ché ogni lirica è un mondo a sé e non ce n’è un altro. Per questo motivo vorrei che le liriche della Medico mi risvegliassero una viscerale antipatia nei loro confronti, che mi conducesse a rilevare quelle differenze di fondo fra due liriche prima ancora che nell’artista, anche se rafforzata, com’è umano, dalla gelosia; anzi direi proprio «invidia», per carpire finalmente da quale mondo poetico viene la sua forza lirica, che certamente accende invidia per la fama ch'Ella gode, del favore straordinario dei lettori e partecipanti del sito web dove opera.

DISSE CUORE A RAGIONE...

Disse Cuore a Ragione:
Abitiamo insieme,ma non ci incontriamo mai.
Mi disprezzi e mi umili,
Dall'alto della tua superiorità mi scacci
ogni volta che voglio farmi sentire.
Andrò ad abitare altre dimore,
avrò per compagna Passione
che,pur essendo cieca,
mi aiuterà a scavalcare granitiche mura,
e a navigare in immensi oceani.
Ricordati,però, che alla mia mensa
ci sarà sempre posto per te.
E quando ti sentirai arida e sterile,
quando Cinismo,tuo compagno,
ti farà così male che
volare o solo camminare
ti sembrerà impossibile,
ti ungerò con profumati unguenti.
E se vorrai,ti porterò con me.
Ti farò visitare lussureggianti paesaggi,

a te sconosciuti.

Rispose Ragione:
 
Mangerò con gusto alla tua mensa.
Sentirò i sussurri,i palpiti.
Giocherò e canterò.
Catturerò profumi.
Ricambierò,invitandoti nel
mio perfetto universo.
E sarai sorpreso nello scoprire
che c'è un posto segreto
che da sempre,
io ho riservato a te.

L'abbondanza di figure, vicende, situazioni, paesaggi è, quasi mostruosa; le liriche rilevano temi realistici, popolari o plebei, sottigliezze allucinate, visionarie, e, come scaturiti da profonde ferite esistenziali, simboli immensi di luce e d'ombra.

Il primo elemento di novità è l’invenzione linguistica. Giusy Medico scrive una lingua, che ha per base il parlato incorniciato da intarsi arcaici, cólti, che tesse su un telaio pronto a sviluppare molteplici storie. Nelle liriche in dialetto è anche musicalmente essenziale; ma sarebbe erroneo definirla poeta dialettale.

Se qualcuno volesse riscontrarvi un «neo» ad ogni costo, potrebbe approfondire la ricerca in cui si distinguono, correnti che traversano il mare a diverse profondità, tre livelli linguistici; il primo è il dialettale, il secondo è quello inventivo e il terzo è l'italiano cólto espresso in una musicalità suadente e solenne, tutta tenuta su note lunghe, come frammenti straziati di un discorso infinito, cui è affidato l'ethos profondo delle situazioni esistenziali o « stacca » su certe silenziose aperture di paesaggio, o introduce il tema della morte, allora è l'italiano cólto che affiora.

L'eccezionaiità di Giusy Medico sta proprio nell'orchestrazione sempre attenta e perfetta dei suoi strumenti diversi: ma è un'orchestrazione modernissima, che misura ed esalta le disarmonie nel momento stesso in cui le ricompone, quasi che nella felicità di immergersi, con il suo linguaggio, dentro la realtà e ricrearla, il Poeta voglia farci partecipi di un suo eterno tormento, assillo dell'irraggiungibile. Il cielo di questa Poesia sembra prendere luce da un sole nero.

SENTIMI

Non mi guardare.
Sentimi.
Percorri con le dita e con la bocca
i miei sentieri.
Senza urgenza,ti insegno la strada.
Con movimenti lenti
le mie mani ti toccano,
felici del tuo turgore.
Ti assaggio.

Segnami con il tuo odore.
Sono il tuo territorio.
Ti bevo,ti ingoio,
mi riempio di te.
Non guardare,sentimi.
Senti il miele che ho dentro.

Mi apro,ti accolgo.
Sembrerà senza fine.
Si annulla il tempo.

Ora guardami,Amore mio,
guardami e sentimi
e stringimi,mangiami
bevimi,riempimi.
Placami.
Tutto di te
dentro me.

L'episodio svettante, in questo spazio lirico, e davvero molto bello, è quello degli amori del nostro tempo in cui il sesso la fa da padrone:

«Segnami con il tuo odore.

Sono il tuo territorio.

Ti bevo,ti ingoio,

mi riempio di te.

Non guardare,sentimi.

Senti il miele che ho dentro».

Ma non tutte le liriche, per fortuna, narrano la crudeltà e la malizia femminina, con i giochi e capricci, le aspre lotte del dubbioso cedere, ognuno dei quali è padrone della sua vita, qui è tutto il brulicare della vita, qui sono rappresentati con una robusta naturalezza, un irresistibile senso dell'arcana positività del reale che fanno di questa lirica, un atto di fede, dolorosa fede, nella inappellabile giustizia e verità del creato.

La lirica «Sentimi» non è nella sua essenza, una poesia tragica: i suoi timbri dominanti sono il timbro favoloso-popolare e un lirismo malinconico, di fondo scuro, piuttosto stoico. Pur intrecciando i due toni, nelle prime due strofe prevale la prima.

Si sente che dietro ogni verso, prima della materia spiegata c'è un punto di partenza ben identificabile per cui è essenzialmente una Donna un Poeta con le sue  convinzioni, che narra come se la formula non si fosse prestata a equivoci, ma sarebbe saltata fuori quella che pur è l'immagine meno improbabile di chi crede a una storia partecipata per ragioni d'ordine intellettuale e spirituale.

Ecco perché trovano giustificazioni perfino quegli accenti alti, quel modo di commozione, quel tanto di enfatico che si potrebbe registrare: sono tutti momenti che in Lei hanno il potere di tenere viva un’attenzione di fondo, non tradire una verità, quella verità che alla fine strappa la vittoria contro gli errori degli uomini e contro la materia di per sé inerte della contemporaneità.

Ma c'è un motivo più interiore che spiega la lunga passione del Poeta che crede in ciò che sente e scrive: per Lei non sono privi di voce neppure i versi più spenti che continuano a restare sulla scena.

A questo criterio sembra rispondere la sua idea di arricchire la poesia con tutta una galleria di liriche che di per sé costituissero un piccolo museo: sono tutti modi di invitare non solo a leggere ma a far rivivere la Poesia, per dare un premio della sua fedeltà ai suoi lettori e seguaci incalliti.

TARANTOLATA. NELLA TERRA DEI RI-MORSI

Striscia, sussulta a ritmo incessante.
Inarca le membra avvelenate.
Fa tue le grida di questa finis-terrae,
dal grecale profumo e del perduto oriente.

Liberati dalla possessione. purificati .
Assalta e difenditi, invocando gli dei
per infinito tempo.
Scuoti questa terra di ri-morsi,
chiedi grazia e pace.
Muori sfinita e risorgi con Dionisio,
preda ossessa di questo arcano destino.

Sottile veleno ti scaglia sull'orlo
del precipizio, a picco sul mare.
dove nessuna onda fa rumore.
Prega ed impreca, fai vortici di aria.
sì da sconvolgere il cielo.

Lacrime e sudore
sfinimento e dolce languore,
veleno che rilasci,
folle baccante,
terremoto di carne e di sangue.

CON-IUGARE

Vorrei ancora coniugare al futuro
il mio dire ed il mio fare,
e dare alla mia anima
la voce di uno Stradivari.

LEGGENDO LE STELLE – IMPROBABILE OROSCOPO

Prenderò la posizione della Stella Polare,
ferma,
mentre tutto intorno ruota.

La metterò a fuoco,
concedendomi un atto magico.
La fotograferò con la reflex,
su di un treppiede,
lasciando aperto l'obiettivo.

Ci sarà un puntino luminoso,
la mia centralità
e tutte le scie delle altre stelle
attorno.

Cerchi e semicerchi di un universo
che si disegna
senza condizionarmi,
in un ordine che non necessita
i miei innaturali sbilanciamenti.


Troverò in me quel puntino luminoso.
E il mondo continuerà a seguire
la propria perfetta linea.

Senza confusione.

DISSE CUORE A RAGIONE...

Disse Cuore a Ragione:

Abitiamo insieme,ma non ci incontriamo mai.
Mi disprezzi e mi umili,
Dall'alto della tua superiorità mi scacci
ogni volta che voglio farmi sentire.
Andrò ad abitare altre dimore,
avrò per compagna Passione
che,pur essendo cieca,
mi aiuterà a scavalcare granitiche mura,
e a navigare in immensi oceani.
Ricordati,però, che alla mia mensa
ci sarà sempre posto per te.
E quando ti sentirai arida e sterile,
quando Cinismo,tuo compagno,
ti farà così male che
volare o solo camminare
ti sembrerà impossibile,
ti ungerò con profumati unguenti.
E se vorrai,ti porterò con me.
Ti farò visitare lussureggianti paesaggi,
a te sconosciuti.

Rispose Ragione:
 
Mangerò con gusto alla tua mensa.
Sentirò i sussurri,i palpiti.
Giocherò e canterò.
Catturerò profumi.
Ricambierò,invitandoti nel
mio perfetto universo.
E sarai sorpreso nello scoprire
che c'è un posto segreto
che da sempre,
io ho riservato a te.

MI SONO PERSA

"sei bella"
e mentre lo dici non ti accorgi di accarezzare cicatrici.
"i tuoi occhi socchiusi"
e mentre lo dici non ti accorgi che sono pieni di sale.
"la tua bocca"
e mentre lo dici non ti accorgi che mastica vetro.

"sei mia"
e mentre mi prendi non ti accorgi che mi sono persa
nel labirinto delle suggestioni d'amore,
di quell'amore che tu ritrovi nel mio ventre
ma che io cerco ancora nelle tue mani.

SENTIMI

Non mi guardare.
Sentimi.
Percorri con le dita e con la bocca
i miei sentieri.
Senza urgenza,ti insegno la strada.
Con movimenti lenti
le mie mani ti toccano,
felici del tuo turgore.
Ti assaggio.

Segnami con il tuo odore.
Sono il tuo territorio.
Ti bevo,ti ingoio,
mi riempio di te.
Non guardare,sentimi.
Senti il miele che ho dentro.

Mi apro,ti accolgo.
Sembrerà senza fine.
Si annulla il tempo.

Ora guardami,Amore mio,
guardami e sentimi
e stringimi,mangiami
bevimi,riempimi.
Placami.
Tutto di te
dentro me.

IL CUORE TRUCCATO

Oggi imbelletto il cuore.
Cipria a coprire le occhiaie,
le rughe d'espressione.
Pesante di nomi e di storie,
lo vesto con l'arcobaleno,
solo un cappello
per proteggerlo dal sole.
Sulle montagne russe
lo voglio portare,
ancora capriole,senza fratture,
per provar le giunture.
Zucchero filato ed occhi nuovi,
parlare francese per darsi un tono,
gelato alla crema e fiori multicolori.
Piccola borsa,solo un rossetto,
ed una borraccia d'acqua,
per affrontare il deserto.
"gradisce un passaggio?"
No, grazie. Solo l'Amore! 


     

QUANDO LA PAROLA DIVENTA COLORE

«E M’INEBRIO D’ARMONIA»

di Eleonora Ruffo Giordani

Eleonora Ruffo Giordani (Angel55) è nata in una sera di primavera, l'aria profumava di zagara e di tuberose, questo il motivo della sua solarità. Si pensava che non sarebbe vissuta e invece vive. Eccome se vive! Vive perché deve scrivere, cantare la vita: mistero meraviglioso che merita di essere vissuta. La vita che è un libro che vale la pena leggere fino in fondo. Com’è bello leggerlo, mentre è aperto nell’infinito, dove è il vento che gira le pagine, perché lei possa amare con la stessa intensità dell’aria. Lei che ha per motto: «La mia libertà si chiama perdono, perché ha spezzato le catene che mi tenevano prigioniera in risentiti ricordi che m'intristivano»; perciò nonostante il grigiore del mondo: spera, vive, canta e trasfigura la realtà della vita in scintillante poesia, avvolta nel più caldo sole che lo spirito possa desiderare.

«E’ sera!

Osservo dal mio balcone

una donna passeggiare lungo il viale con il suo cane.

I lampioni accesi

sotto il cielo di giugno

rendono suggestivo il paesaggio serale.

Le saracinesche dei negozi sono chiuse

tutto acquista nostalgico e romantico sapore».

L'elemento fondamentale della Poesia, già dai primordi, è il ritmo; esso è, come lo ha definito D'Annunzio «il cuore della lirica». Esso è l'elemento che più intensamente ed immediatamente influisce sul lettore, perché ha un'azione diretta sia sul corpo sia sulle emozioni. La poesia è la vita organica stessa perché è basata su vari ritmi: il ritmo della respirazione, delle pulsazioni, dei vari movimenti muscolari; il ritmo dell'attività e del riposo, delle diverse funzioni fisiologiche, per non parlare dei più sottili vibratori della cellula, d’ogni molecola, e di ciascun atomo.

In questa lirica Eleonora (Angel55) non incanta solo per il ritmo, ma come Nicolas Poussin imprime sulla carta con pennellate di parole il paesaggio concepito dalla fantasia per far penetrare il messaggio nell'anima e avvolgerla in quell'alone di serenità e di pace, che le parole evocano.

Eccolo il quadro che prende forma e incanta, come il Poeta vuole che sia, le parole divengono pennellate, prima solo accennate come quelle dei «macchiaoli» brune e del colore della Terra per illuminarsi di quel sole caldo e sincero che filtra da ogni verso, proprio come la pensava Van Gogh: «tutti gli elementi iconografici (“il balcone, la passeggiata della donna, le saracinesche dei negozi…”) legano il tema  dell’espressione poetica e della vita»

Dante nella Divina Commedia ha usato il simbolismo con piena consapevolezza; come Eleonora (Angel55), sapientemente lo ha sviluppato, non come accidente  simbolico, ma vero simbolo che rappresenti la natura umana e poetica di cui offre l’esempio.

«Un profumo di attesa

si espande nell’aria.

Fedeli propositi

si elevano dall’anima

che accoglie

sogni e speranze perduti e assopiti

di tempi prodighi

quando era acqua».

Il significato simbolico si sviluppa e impara a camminare in questa seconda stanza della lirica (la stanza leopardianamente perché tale appare al primo impatto) è il mirabile quadro di una psicosintesi completa. «Il profumo dell’attesa, i fedeli che elevano l’anima pronta ad accogliere speranze e sogni lontani»,mentre appare l’immagine che porta all’esplorazione dell'inconscio; si avvia verso il processo della purificazione e del graduale risveglio della coscienza.

«Lo spirito affranto

abbraccia il minuscolo muscolo

che batte impazzito

perché profonde emozioni

invadono i sensi

e la luce illumina i pensieri».

Il significato essenziale della lirica apre le porte della mente, per purificarla da tutte le preoccupazioni che il vivere attuale comporta, e prepararla all’accoglienza delle immagini successive, con una ricchezza di simboli particolari.

«il cuore è abbracciato dallo spirito per illuminare, appunto, l’ombra che potrebbe essersi creata per un incidente involontario».

Poi s’illumina Ella stessa perché è cosciente che il sole che riscalda i cuori, ormai apatici e freddi ad ogni forma di colloquio e inconoscibilità del reale, e si abbandona per sentirsi invasa «dalle profonde emozioni/ che illuminano i pensieri», perciò quando scorge i raggi del sole danzare tra i rami degli alberi, al ritmo de «La danza della spade» di Aram Khachaturian, il Quid, Dio per me, già preme e infila altre parole nella mente creativa del Poeta, irradiando la sua mente di una ragione che nemmeno il Poeta stesso sospettava di possedere; dentro sente che la ragione gli spiega come deve procedere per affascinare e far comprendere il desiderio dell’ anima sua.

«La mente percepisce

comprende

si inginocchia umile

all’Essenza Amore

Vita che produce vita dentro l’anima.

I segni che sembravano intraducibili

ora l’intelligenza del cuore

ricomincia ad interpretarli.

Una voce mi distrae

chiama il mio nome

attenzione la mia curiosità.

Il metodo usato da Eleonora, può essere considerato un processo di sublimazione, poiché il soggetto porta alla superficie immagini scaturite dalla profondità dell’«Io» creativo, per essere sottoposte all’osservazione del «Sé» razionale, trasformandole per renderle benefiche e poi procedere fino alla vetta per cogliere «l’Essenza dell’amore». E, una volta raggiunta la vetta, prova sentimenti,  che credeva di non possedere. Ed Ella sfrutta questa esperienza per contribuire a produrre un notevole miglioramento della sua vita e non solo affettiva.

«I segni che sembravano intraducibili» per i vari «scrivitori di versi» che infestano il Web, come ieri infestavano i libri, di parole senza senso che pomposamente chiamano versi, senza tener conto che sono solo parole scritte in verticale (ma se leggessero di più…) Questo è il sacrificio del Poeta, affrontare la ripida montagna dell’ignoranza per aprire la mente agli eletti; perciò è opportuno tener conto che il linguaggio deve essere più semplice possibile e deve essere usato soltanto con una sufficiente preparazione culturale ed un’aspirazione spirituale.

Quanto ho affermato è scaturito dai significati e dal simbolisimo, che il Poeta ha cercato di identificare con l’umanità.

«Mi sporgo dal balcone

per capire e vedere.

Sorpresa sorrido

è un mio vecchio compagno di scuola

che mi saluta con fare gioioso

mi chiede in fretta e in fretta rispondo

ridiamo divertiti

perché nonostante il tempo sia passato

noi siamo rimasti uguali

nell’entusiasmo di bambini».

Nel terzo millennio e particolarmente negli ultimi decenni, c’è stato un decadimento spaventoso, un eclatante interesse per la poesia, ma la vera Poesia quanti la riconoscono, la capiscono e l’apprezzano, se anche la scuola invece di sviluppare la memoria dei ragazzi la ottundisce, non permettendo loro di imparare a memoria le poesie di chi ha fatto la storia della letteratura italiana?

«…un mio vecchio compagno di scuola/che mi saluta con fare gioioso» e si sofferma sull’uguaglianza dei bambini: è la riflessione.

Secondo Pirandello, «la riflessione non si nasconde mai, né potrebbe essere mascherata o eliminata del tutto dalla volontà o dalla coscienza di un personaggio, come potrebbe succedere con un sentimento; non è come lo specchio, davanti al quale l'uomo si rimira, ma si pone davanti a ciascuno come un giudice, analizzando vicende e personaggi, con obiettività e imparzialità, scomponendo l'immagine di tutte le cose, le vicende e i personaggi stessi nelle loro componenti: da questa scomposizione nasce l’avvertimento del contrario».         

Il compito del Poeta è quello di smascherare le vanità che possono albergare nell'animo umano, seguendo la via della riflessione, e del sentimento che è interpretato da ciascuno a modo suo, lontano da qualsiasi realtà e da qualsiasi coscienza del vivere.

«La donna col cane non la vedo più

e mentre la musica si diffonde nella mia stanza

affacciata dal mio balcone mi inebrio d’armonia

nella mia nostalgia».

E quindi, Eleonora, dalle opere dipinte con le parole, passando attraverso la riflessione e il controllo del «Sé» razionale sull’«Io» creativo fa nascere una nuova immagine e crea l'umorismo di una nuova visione della vita, senza sottolineare particolari contrasti tra l'ideale e la realtà, proprio per la particolare attività della riflessione, che «genera il sentimento del contrario», la perplessità, lo stato irresoluto della coscienza. Ella sa che è il sentimento del contrario che distingue lo «scrivitore di versi» dal Poeta “VATE” perché il secondo assume un atteggiamento diverso di fronte alla realtà.

«… e mentre la musica si diffonde nella mia stanza

affacciata dal mio balcone mi inebrio d’armonia»

Questa riflessione s’insinua acuta e sottile da per tutto scomponendo ogni immagine del sentimento, ogni finzione ideale, ogni apparenza della realtà, ogni illusione. Tutti i fenomeni, sono illusori e la ragione ci sfugge, inesplicabile. Manca alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle.

Ma Eleonora in questa nuova visione della realtà verifica lo scontro tra l'illusione e la riflessione, che scompone le costruzioni lasciando gli effetti nei differenti approcci con la realtà.

... E M’INEBRIO D’ARMONIA.

E’ sera!

Osservo dal mio balcone

una donna passeggiare lungo il viale con il suo cane.

I lampioni accesi

sotto il cielo di giugno

rendono suggestivo il paesaggio serale.

Le saracinesche dei negozi sono chiuse

tutto acquista nostalgico e romantico sapore.

Un profumo di attesa

si espande nell’aria.

Fedeli propositi

si elevano dall’anima

che accoglie

sogni e speranze perduti e assopiti

di tempi prodighi

quando era acqua.

Lo spirito affranto

abbraccia il minuscolo muscolo

che batte impazzito

perché profonde emozioni

invadono i sensi

e la luce illumina i pensieri.

La mente percepisce

comprende

si inginocchia umile

all’Essenza Amore

Vita che produce vita dentro l’anima.

I segni che sembravano intraducibili

ora l’intelligenza del cuore

ricomincia ad interpretarli.

Una voce mi distrae

chiama il mio nome

attenzione la mia curiosità.

Mi sporgo dal balcone

per capire e vedere.

Sorpresa sorrido

è un mio vecchio compagno di scuola

che mi saluta con fare gioioso

mi chiede in fretta e in fretta rispondo

ridiamo divertiti

perché nonostante il tempo sia passato

noi siamo rimasti uguali

nell’entusiasmo di bambini.

La donna col cane non la vedo più

e mentre la musica si diffonde nella mia stanza

affacciata dal mio balcone mi inebrio d’armonia

nella mia nostalgia.

(da “Pensieri e Sentimenti”)

SARA

Sara, la mia bambola

aveva gli occhi verdi

i capelli lunghi e neri.

Inseparabile amica

giocavo con lei spensierata

raccontandole il mio mondo.

Libravo libera

sulle acque pure dello spirito

e sui prati della speranza

attendevo l'amore.

Al chiaro di luna scrivevo

- ingenue aspirazioni -

e sognavo, sognavo, sognavo…

bellezza e calore

poesia e tenerezza

Ma uno zingaro crudele

vestito da principe

e da angelo m'ingannò.

 

Per invidia e capriccio

mi rubò la bambola.

La cercai.

la cercai.

la cercai ma invano.

Disperata!
Le lacrime grondando

di dolore affondarono

nel seno della terra

dando vita ad umili erbe

che sussurrarono al cuore

parole di perdono e di amore.

No! Gridai disperata.

Rivoglio la mia bambola!

Sara è mia!

La morte improvvisa m’abbracciò.

Il tempo e la grazia

lenirono il dolore:

Poesia  perdono e amore

regnano ora,nel mio bambino cuore.

Ma quella bambola

non l'ho mai dimenticata

ché la mia vita era

e mi è stata rubata.

 

RICORDANDO IERI... SOLA

Sola nella direzione opposta del mio andare

davanti ad un bivio che non appariva facile.

La scelta avrebbe determinato il mio futuro.


Avvertii la mia fragilità,

la mia limitatezza

la mia impotenza.

La volontà offuscata dagli eventi

mi fa veder la strada lunga e scoscesa.

Un brivido percorre l’esser mio e lacrime

di gelo, solcano le ingenue guance.

Smarrita, ho paura per la prima volta.

Davanti al bivio che chiede risposta

grido invano aiuto,

nessuna man mi è tesa

nessuna lacrima mi è asciugata.

Attonita non comprendo il messaggio,

troppo bambina per capirlo.

 

Le ultime luci si spengono,

mentre il mio lambisce amore.

 
L'anima, esibisce allo spirito il diadema

delle virtù praticate,

gli fa coraggio, ma l'intelletto s'è fermato,

si rifiuta di comprendere.

 
M'inginocchio al crocevia della strada,

in quel bivio invoco luce per la scelta,

mentre il sole tramonta sul mio paesaggio.

 

Non trovo spiegazioni al mio dolore

tutto è grigio, imporporato di sangue

per me non avverto voli, né brezze

 

La fitta nebbia scoraggia la speranza

che ardua squarcia il denso suo latte

la luce del mattino,

s'infiltra nell'anima,

nell'abbraccio la gioia della rinascita.

 

Quercia la vita mia nel vitale banchetto celeste

si riscopre ancora capace di perdonare chi

con infamia l'ha tradita.

(da Il cammino dell’anima)

DIARIO  3


Mi diceva entusiasta di volermi bene

dei miei consigli non poteva farne a meno.

Mi telefonava più volte al giorno

raccontandomi del dolce suo bisogno...


L'ascoltavo commossa e attenta

stupita e qualche volta sospetta.


Era la mia migliore amica!

 

Disponibile quando doveva sostituirmi

senza che lo sapessi

notificandomi tutto

a situazione avvenuta e consumata.

 
M’imitava alla perfezione

con fare dolce da sorella cara

mi rassicurava e mi baciava.

 

Ironicamente gli amici dicevano:

«Credevamo d'avere te davanti

lei è la tua imitazione costante».

A volte ci prendevan per sorelle

due gocce d'acqua viste da lontano.

 
Mi sentivo tanto fortunata,

che se mi fossi lamentata

per ingratitudine avrei meritato

senza perdono d'esser lapidata.

 
Sfoggiava la sua umiltà

per mio incanto

che felice nel mio canto

l’ accoglieva.

 
Musica, disegno, poesia e lettura

Insieme; poi all'improvviso

mi confidò di amare

sbiadendo il ricordo del passato

il contrario del parlare.

 
Controllava tutto anche gli amici

che con gioia condividevo

tranne quell'amicizia «dignitate»

che gelosamente custodivo.

I cui consigli erano linfa vitale,

per me era la guida, il mio faro

e lei non lo poteva sopportare.

 
«Non c'è condivisione! Gridava disperata

quest’amicizia la voglio urlava arrabbiata».

Serenamente la rassicuravo

progettando subito un incontro

per vederla gioire contenta,

ma non mi diede il tempo.

 
Un giorno, per la solidarietà

che mi decantava.

In maniera subdola e cruenta

con perfetta infamia

aiutata da vili farisei

con la cui ideologia mi ero scontrata

recitò una parte ignobile

da maestra architettata

strappandomi per invidia,

quell'amicizia vitale,

che Dio mi aveva donata.

 
Incredula, col cuore frantumato

per coerenza la volli perdonare

anche se aveva distrutto tutta

la mia vita nel suo andare.

 
Piansi per la sua povertà!

Ed era la mia migliore amica.

(da Fiori d'Anima)

 

EMOZIONI ESTIVE
 

1° parte

E' pomeriggio!
Nel cielo estivo
il riverbero del sole
riflette
immagini di luce
e alla memoria appare

timido il boschetto
dietro la casa dei ricordi.

Un libro mi fa compagnia.
Seduta sul muretto di cinta
Ora distratta, ora assorta
ascolto i rumori lontani
della società tecnologica
che ha smarrito la pietà.

Una fitta attraversa il petto!
 

Stringo momenti di vita
all'ombra delle emozioni e canto
con le braccia alzate
per abbracciare il cielo.

Mi tuffo nell'Amore
del perché della vita,
penso alla morale
che l'uomo ha smarrito.
Mi sento schiacciata
e volo sulle nuvole
per viaggiare leggera

correndo incontro ai desideri.

Il mio mondo colorato di vita e di sole
bagnato di rugiada di bosco a primavera
e accarezzo prati e montagne innevate.
mentre complice il vento, m'insinuo
tra i rami e ascolto
il chiaccierio delle foglie.

2° parte

Si fa sera!
Il cielo di giugno
continua a cantare sulle ali

della mia poesia
nel boschetto della casa dei ricordi.

E' un cielo ruffiano
accarezza i versi che l'anima eleva
bacia i sentimenti più intensi
regala quest'avventura e nell'ala

del silenzio le emozioni cristalline.
 

Lo spirito sposa l'arcano e abbraccia l'Eterno.
Tremano le stelle, piange la luna e non so.

Stretta al seno dell'Amore
sola m'aggiro tra i colori.
Bianco fiore
candido giglio
l'anima silenziosa
intona dolci melodie.

Ah Tenerezza!

La Sua immagine
limpida m'appare.

Sogno che  profuma d'etereo
e di petali puri di primavera.
Stringo il libro mio sincero compagno

seduta sul muretto di cinta
i rumori mi giungono ancora.
 

Libero sogni e pensieri migliori
gli impulsi più nobili e buoni
e li ormeggio

nella magia delle emozioni.

Sospira il cuore!
E teneramente saluta l'Amore.

(da "Fiori d'Anima") Eleonora angel55
 

Liriche di grande spessore poetico, la ricchezza giocosa delle metafore le rendono gradevoli al lettore che in esse può anche scorgere un pizzico di ambiguità tra la «bambola rubata da uno zingaro e il dolore che lacera l’anima lasciando profonde rughe, che solo «il perdono, l’amore e la poesia» sanno guarire, perché in fondo c’è sempre «un cuore che teneramente saluta Amore».

Le liriche si presentano sotto forma di ballate, altrimenti non potrebbero essere considerate, visto il tema trattato. Di concezione moderna post brechtiana, vanno oltre il significato della ballata di Brecht e poi c’è quel novenario tronco: «La morte improvvisa m’abbracciò» seguito dall’esultante endecasillabo «E teneramente saluta l’Amore», dopo il grido disperato che palesa l’appartenenza dell’anima propria, che il Poeta vuole per sé e vorrebbe per tutti.


La fuga
Un giorno come questo, quel 15 ottobre 1943. Piove a dirotto, sembra dovesse essere un secondo diluvio.
Al nord si combatte ancora per liberare l'Italia dai nazifascismi e si sentono ancora struggenti i morsi della fame. Sono quattro mesi che si è perduto il sapore del pane. Il nostro cibo: patate e scatolame; legumi in scatola offerti dagli americani e polvere di tutti i colori e di tutti i sapori; ma comunque fosse è sempre salatissima.
Per non perdere l'abitudine di fare il pane (ogni famiglia se lo fa in casa), pensano di farlo con la farina di piselli, che chiamano familiarmente "polvere di piselli". Anche mia madre è presa dalla stessa mania. Così il paese è invaso da un odore che non vi dico, ma le mamme sono allegre: finalmente fanno ritorno ai forni e chiacchierano, mentre gli uomini (quelli ritornati dopo l'otto settembre) durante il lavoro (chi ce l'ha) si consola pensando che forse la moglie sia stata più saggia delle altre, non sottoponendosi ad una fatica inutile impastando quella porcheria (che anche i maiali rifiutano di mangiare), per farne dello schifosissimo pane di colore verde.
A mezzogiorno, ritornato a casa, ho la sorpresa di non trovare mia madre. Domando a mia sorella dove fosse ed ella (l'incosciente!), col più candido dei sorrisi mi dice che è andata al forno per infornare il pane. A quella notizia salto di gioia e corro veloce più della lepre da un forno all'altro per trovarla e addentare finalmente un pezzo di pane appena sfornato. Mi tocca girare mezzo paese prima di trovarla. Quando la trovo mi tuffo sul pane, lo addento con tanto desiderio, anche se ha il colore verde e odore di piselli fradici, ma... Dio, mio! Che sapore schifosissimo ha!
A casa, mamma mi conforta invitandomi a mangiare almeno la minestra.
- Che si mangia? - Chiedo, illudendomi rispondesse "pasta e fagioli", invece, con l'aria più angelica di questo mondo: "Polenta di polvere di piselli".
Reagisco con parolacce e minaccio di andar via di casa (mio padre non è ancora ritornato e chissà in quale parte del mondo è prigioniero), mi picchia col bastone della scopa, tanto l'ho esasperata.
- Me ne vado. - dico scappando via, piangendo.
- Voglio vedere se ne sei capace. - Mi sfida e con calma serafica, aggiunge. - Sono curiosa di vedere se riesci ad andare oltre ponte Valentino.
Sa benissimo che oltre non potrei andare, perché il ponte è stato fatto saltare dai tedeschi in ritirata verso il nord, secondo perché non so nuotare ed ho paura dell'acqua, perciò non avrei mai attraversato il fiume per passare dall'altra sponda.
Ma sono fuori di me e senza farmelo ripetere prendo a correre per la mulattiera fino al crocevia. In un batter d'occhio sono a Ravàno. Riprende a piovere, con più insistenza (nella fretta ho dimenticato la giacca).
Mi dibatto nel dilemma: "Torno indietro o vado avanti?", immobile come un palo sotto la pioggia torrenziale. Ormai l'acqua ha raggiunto la pelle quando decido di andare avanti. Mi tolgo le scarpe, per camminare meglio nel fango: nulla mi trattiene! Fra poco sarei giunto alla stazione e avrei preso il treno per Napoli. E come se non ho un soldo? Avrei dovuto andare necessariamente a Benevento e, ineluttabilmente, avrei dovuto attraversare il fiume: ho paura, tanta paura!
- Massimo? Dove te ne vai, con questa pioggia? - Rintrona come un tuono la voce di Oreste, lo studente zappatore (lo chiamiamo così perché di giorno zappa a gomito a gomito con suo padre e la sera studia).
- A Napoli.
- Conciato come sei, non arriverai neppure a Benevento. - Mi viene vicino, mi mette mano sulla spalla e aggiunge: - Sei bagnato fradicio.Vieni sotto l'ombrello. - Si toglie la giacca. - Metti questa sulle spalle intanto.
- Oreste sono commosso dalla tua gentilezza, dalla tua bontà, ma devo proseguire. Devo allontanarmi il più presto possibile da questo luogo infame, che non dà risorse di sorta. Voglio evadere, devo evadere, capisci? - Parlo con convinzione fermo in mezzo alla strada come un allampanato, mentre l'acqua cade copiosa.
- Ragazzo mio, ti buscherai una polmonite. - Dice Oreste paternamente, guardandomi fisso negli occhi. - Vieni andiamo alla "masseria" dei Degregorio, mi conoscono, ti asciugherai e poi se sarai ancora del parere di partire, partirai. - Consiglia con quella calma decisa che non ammette repliche.
Lo seguo.
I Degregorio sono molto buoni. Mi fanno indossare un vestito del loro figlio più piccolo, intanto che si asciugano i miei.
- Conobbi un ragazzo, tempo addietro che ti somiglia in modo impressionante… - inizia a raccontare Oreste.
- E' di Paduli?
- Sì.
- Lo conosco?
- Forse. Ma che vale sapere chi è?
Mentre parla, Oreste s'infervora. - Importante è sapere quello che ha fatto, non ti pare? Poc'anzi quando ti ho chiesto dove andassi, mi hai risposto a Napoli. Cosa credi di trovare a Napoli? La ricchezza? Il lavoro? No, mio caro, a Napoli, come nella maggior parte del Paese, non troverai che fame e miseria. E poi tu sei solo un bambino, senza parenti, senza amici, ti perderesti.
- Ma io non voglio ritornare a casa! Ho detto che sarei andato via, non posso ritornare indietro. Ti ripeto sono stanco di lavorare, lavorare, lavorare e non riuscire a vedere com'è fatto un soldo, perché nessuno ti da il salario. A Napoli i ragazzi della mia età guadagnano intorno alle trecento lire alla settimana, compreso le mance. Ti sembra giusto che qui dev'essere diverso?
- Ti capisco! - Dice l'uomo con voce grave. - Non sei il primo a pensare queste cose, anche altri, prima di te, hanno pensato le medesime cose e hanno pianto per l'impossibilità di poterle cambiare. - Si era alza in piedi e,parlando, misura la stanza, in lungo e in largo. Improvvisamente si ferma e appoggia le mani sulla spalliera della sedia dove sono seduto, mi volto, lo guardo in volto: è addolorato. Lui, prima guarda in alto, poi abbassa la testa e mi pare, che lo vedessi per la prima volta: ha un volto aperto e leale, lineamenti incisivi che denotano una forte volontà. Si accorge che lo guardo con interesse e sorride,mi passa una mano nei capelli bagnati e riprende...
- Qualche anno fa, un ragazzo… come te decide di fuggire da casa… - Inizia a raccontare Oreste, parla con voce grave e profonda - per inseguire le sue chimere. Qualche giorno dopo ritorna con un'immensa amarezza dentro. Appena terminate le elementari decide di continuare gli studi, ma le condizioni economiche della famiglia non lo permettono: braccianti agricoli che guadagnano soltanto duecentocinquanta lire al giorno e con quattro figli non possono permettersi il lusso di farlo studiare. Soffre molto, ma per non far soffrire i suoi si finge rassegnato:passano quattro anni! Decide di imparare a fare il barbiere per guadagnare quel tanto che gli permetta di comprare i libri: avrebbe studiato da solo. L'illusione muore presto, lasciandogli l'amaro della sconfitta. Ma se la fortuna è stata nemica da questo punto di vista, gli è stata amica dall'altra, perché gli ha fatto conoscere un grande uomo, Arnaldo, poi diventato suo amico per la pelle. Arnaldo frequenta il Liceo al Collegio "La Salle" di Benevento e dà lezioni private ai ripetenti, così pensa che se avesse avuto forza e volontà avrebbe potuto riuscire nel suo intento: istruirsi è il suo sogno! Con Arnaldo vanno subito d'accordo. Lui gli fa la barba e Arnaldo gli dà lezioni. Adesso ti chiederai come faceva per comprarsi i libri di testo? Ti sembrerà inumano, ma ogni sera prega Dio di far morire le persone più vecchie affinché possa fare il chierichetto e guadagnare una lira se non porta la Croce, se la porta due; poi c'è sempre qualche guadagno extra che racimola andando a lavorare in campagna. In poco tempo mette da parte quattromila lire.
Un giorno c'è un funerale di lusso e i chierichetti diventano dieci, tutti studenti tranne lui. Loro lo fanno per comprarsi le sigarette. Al ritorno dal cimitero si parla della scuola e dei programmi scolastici, Idillio gli domanda che cosa avrebbe voluto fare da grande; lui con entusiasmo palesa i suoi sogni e dice che vorrebbe fare il medico.
- E dimmi... - domanda Capresi, uno spilungone che da tre anni ripete il quinto ginnasio - come farai se non hai il becco di un quattrino? Chi te li darà i soldi?
- Forse zappando. - Rincara Gaetano, un ragazzo grasso e grosso come una montagna che, per quanto fosse il più intelligente della comitiva ha fama di essere il più stronzo. - Avrà trovato un tesoro, che ne sapete voi?
- No, che non ho trovato un tesoro, me li sono guadagnati col lavoro; ho messo da parte già quattromila lire.
Echeggia una risata ironica e beffarda. Quanto gli fa male quella risata! Poi, credo, sia stata proprio quella risata a spronarlo, a non arrendersi.
Il fanciullo di allora ha quasi trent'anni, il prossimo anno si laureerà in medicina: il suo sogno si sarà avverato. Perché ti ho narrato questo? Te l'ho raccontato perché sappia che non è andando lontano da Paduli che si può realizzare il proprio avvenire. Anche qui, se si vuole, ci si può realizzare. Basta avere fede in se stessi, il resto non conta. Massimo, impara a camminare diritto e non voltarti indietro, anzi guarda avanti, sempre. Mi viene in mente una poesia di Li Po, un poeta cinese del sesto secolo avanti Cristo, che recita su per giù queste parole: "salivo in cima al colle in groppa a un asino, dinanzi a me gente ammalata, affamata, sporca e piagata tendeva la mano per chiedere aiuto. In vetta, quando feci per scendere dalla groppa mi accorsi di essere seduto con la faccia verso il posteriore dell'asino". Tienila sempre a mente, Massimo, e vai per la tua strada, ricordando sempre che dietro di te ci sono milioni di persone che soffrono molto più di te.
Segue una lunga pausa, alzando la testa mi pare di vedere il mio avvenire che mi guarda con un sorriso cattivo. Apro la bocca per dire qualcosa, ma non esce alcun suono. Sono terrorizzato. Dopo il primo attimo di paura emetto un grido acutissimo che sbalordisce il buon Oreste, mentre riprendo a fuggire sotto la pioggia incessante, verso il ponte, dimentico di tutto: un solo pensiero danza nella mia testa: un terribile pensiero.
Corro, corro tanto; voglio mettere tra me e quei luoghi una barriera insormontabile. Solo più tardi ho capito che per dimenticare non esistono barriere.
Oreste mi rincorre chiamandomi, ma non posso sentirlo, preso come sono da quel pensiero. Arrivato alla sommità del ponte mi ricordo che è stato demolito dai nazisti in ritirata verso il nord. Cado nel fiume in piena, vedendomi venire incontro la morte rabbrividisco e non capisco più nulla.
Quando riapro gli occhi cerco di ricordare, ma inutilmente. Nella mia mente è tutto confuso come sono confusi i volti, che mi guardano con apprensione.
- Come ti senti? - Chiede Oreste.
- Meglio, molto meglio.
- Possiamo ritornare a casa, che ne dici? - Vedendo che non rispondo, riprende. - Oppure sei ancora deciso nel tuo proposito di partire? - Continuo a non rispondergli e lui, imperterrito. - Sai che sto pensando, Massimo? Tu sei deciso ad andare a Napoli, ebbene ti prometto che ti porterò con me, la prossima volta che andrò all'università. Che ne dici?
Lo ringraziavo. La sua bontà è commovente ed io non merito tanto.
Con gli occhi lucidi, Oreste mi accarezza e afferrandomi per mano, mi accompagna a casa, dove mia madre mi credeva già a Napoli…    

Notte di Natale
- Ecco la cometa! - Mormora il prigioniero di guerra, Pietro Grandinelli. - Ed io sono... un altro anno è passato! Oh, Dio! Quando finisce questo tormento?
Si alza dal cantuccio dov'èra seduto, si dirige all'altro angolo dell’orribile caverna, e da un buco nascosto trae tre bastoncelli, uno più lungo dell'altro. Torna al posto di prima e prende a pensare ai suoi con nostalgia, e conficcati i tre bastoncelli nella terra, si rivolge a loro come fossero i suoi bambini che ha lasciato tredici anni addietro.
Rivolto al più lungo:
«Gianni, ti ricordi ancora di me, vero? Ora sei un giovanotto, un uomo sei. Certo ti sarai anche sposato, forse hai dei figli. Eri alto così quando ti ho lasciato. Avevi soli dodici anni! Anche tu, Carlo, ora sei un uomo e, forse, come me e Gianni, sei lontano dalla tua mamma. Maledetta guerra! Gemma, piccola Gemma! Tu non puoi ricordarti di me, avevi solo due anni! Chissà che bella signorina sei diventata! Piccola mia, mi accorgo che è passato un altro anno, solo in questa notte di Natale. Solo in questa notte santa ci penso, perché vedo nel cielo la cometa che indicò la strada ai re Magi, e solo in questa notte ho un barlume di gioia, e forse... forse, sì. Perché no? Sento un brivido di felicità perché ti vedo, ti parlo. Vi vedo tutti intorno al presepio.Sento la voce di Carlo».
- Papà, ma quando mettiamo il Bambino Gesù, nella mangiatoia?
- Ma lo vedi che non è ancora mezzanotte? - Interviene Gianni.
E tu, Gemmina mia, ti alzavi sulla punta dei piedi per vedere, ed eri felice. Correvi da me e, balbettando, mi facevi milioni di domande, come una mitragliatrice.
Vi vedo tutti come in sogno. Dimmi, amore, chi te lo ha costruito il presepio in questi anni? Di certo la mamma. Povera Clara, quanto devi aver sofferto! Dev'essere mezzanotte! La stella scende sulla grotta. Voi tutti vi raccogliete intorno al presepio. La mamma fa il giro intorno alla stanza, col Bambinello tra le coppe delle mani, prima di deporlo nella mangiatoia!
Si cominciano a sentire i primi fuochi d'artificio, le campane suonano a gloria. Voi uscite sul balcone per vedere, per accendere i vostri bengala; la mamma non si muove. E' inginocchiata davanti al presepio e prega. Lo so perché prega. Anch'io prego per lo stesso motivo. Prego affinché tutto finisca al più presto ed io possa rivedervi.
Lacrime copiose bagnano il viso del triste prigioniero insonne. I guardiani russano.
Ed è sempre così, ogni anno, Come un appuntamento col destino, Pietro si siede là, prende i tre bastoncelli, li conficca nella terra e parla loro. Lo credono impazzito, poverino! Invece spera, spera e si dice: «Forse il prossimo Natale!»
Così sono passati tredici anni: tredici Natale! e lui è sempre sotto il cielo freddo, stellato, a colloquio con tre pezzi di legno: tutta la sua vita in quelle tre speranze.    

Ricordi di Natale
Natale, quanti ricordi! Mi lascio trasportare da loro con lo stesso entusiasmo di un tempo.
Natale! Cerco di soffermarmi ad uno di essi, ma le birichinate di mio figlio mi distolgono, per far riprendere al pensiero, ricordi più recenti.
- Papà, è 'atale, oldi a me, 'iente?
- Cosa ci devi fare con i soldi?
- Compà le cappe!
Mi viene da pensare alla differenza esistente tra mia e la sua fanciullezza: lui è più realista, pensa alle scarpe, ai calzoni; io, invece... oh, no! Perché questi ricordi tristi? Mia madre mi ripete spesso che già alla sua età avevo tendenze all'arte, in genere. Franco, come se nulla fosse accaduto, si è rimesso a giocare con la sorellina e i ricordi mi assaliscono con prepotenza indescrivibile: ricordi tristi e lieti.
La guerra è finita. E' il primo Natale di pace: 1946!

* * *

- Caro, lo sai che devo trovare il momento buono per uscire, la mamma potrebbe insospettirsi. - Carletta! La piccola, cara Carletta! La sua voce! Che voce! Melodiosa, scintillante come un ruscello di montagna canterino.
Carletta non era bella, fu la sua voce ad incantarmi. Non ero che un ragazzo: quindici anni! E fu quella sera del Natale 1946 che, per la prima volta, prendendole le mani in un impeto d'amore (lo avevo fatto per trovare il coraggio di parlare). Provai un tremore in tutto il mio essere, che ancora oggi mi è difficile dimenticare. Dissi tutto d'un fiato, per paura che mi mancasse la voce.
- Carletta, sai?... La mia domanda per frequentare gli studi al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, è stata accettata. Il sette gennaio dovrò iniziare l'anno scolastico.
- Allora? - M'interruppe tremante. - Vuol dire che dovrai partire?
- Sì, cara.
Già tutto l'entusiasmo era scomparso! Mi dispiaceva separarmi da lei, seppure sapevo che di tanto in tanto sarei potuto ritornare. Ma sarei ritornato davvero?
- Verrò spesso, la mia famiglia è qui. - Dissi dopo una pausa. - Devo andare, capisci? E' per il mio avvenire. Pensa cara, il diploma di compositore! Io voglio comporre musica. Scriverò un'opera lirica e tu, amore mio, ne sarai l'interprete. E poi ne scriverò altre e tutte, tutte tu le canterai.
- Oh, caro! - Esclamò con voce sognante. - Sarà bello, lo sento. Mi sembra già di vedere i manifesti fuori del Teatro San Carlo e la Scala di Milano, con i nostri nomi, scritti grandi così. - E fece segno con le mani per farmi capire la grandezza delle lettere. - La prima opera la intitoleremo - continuava con fervore - Amore e volontà. Ed io canterò con tutta l'anima. La gente dirà: «Che bravi questi Carletta Spini e Mario Zanelli, cantano al mondo intero il loro amore e la volontà di riuscire nella vita: lui con la musica, lei con la voce d'usignuolo, Non sarà bello?»
- Carletta? Carletta?! - La madre la cercava, chiamandola a squarciagola. Mi baciò e scappò via.
Il mio primo vero bacio d'amore! Quel bacio mi accompagnò...
- Papà. Papà! - Franco tutto gioioso, mi tira per i calzoni.
- Che c'è?
Mi mostra dei soldi che, dice, gli ha regalato lo zio.
- Carletta! - Sospiro come in sogno.

* * *

E' tardi, ormai tutto tace, anche il vento. Forse per non spezzare il corso dei ricordi: Anna, Carmen, Antonietta. Antonietta! Com'era bella! Bionda, esile, eterea. Cara Antonietta!
La conobbi la sera del 24 dicembre 1950. Non ci dicemmo molto. Bastò un giro di valzer per legarci. Ci guardammo semplicemente e, come un appuntamento col destino, ci ritrovammo il primo gennaio e ci dicemmo, solo guardandoci, quello che le parole avrebbero potuto sciupare.
- Antonietta!
- Mario!
In un lampo, fummo l'una nelle braccia dell'altro. Mi parve di avere il mondo stretto a me. Restammo così, quanto tempo? Le stelle e le luci di Napoli facevano da cornice al nostro sentimento, mentre nell'aria, come portate dal vento, giungevano fino a noi i versi di Landolfi Petrone:
«So' 'e stelle scese 'nterra
o so' sagliuto i 'ncielo?»
Natale 1953: il mio debutto.
Suonavo e guardavo la poltrona dove avrebbe dovuto trovarsi Antonietta, occupata da una donna piccola, dai capelli corvini: dov'era Antonietta? Pensavo a lei e piangevo, perché? Il direttore d'orchestra credette fosse emozione dovuta alla benevolenza del pubblico, che mi aveva accolto, con entusiasmo. Non sapeva, non poteva sapere, il caro direttore, che il mio pianto non era di felicità, ma di disperazione perché Antonietta non era venuta.
Perché non è venuta? Che cosa sarà accaduto? Dio mio, perché nel pensare a lei sentivo quella stretta al cuore? E perché quella piccola donna bruna, seduta al posto riservato ad Antonietta, piangeva? Il concerto sembrava non dovesse più finire. Mi sembrava noioso, eterno. Perché non finiva tutto, presto? Il tempo sembrava si fosse fermato.
Finalmente il concerto era finito. Ma perché la piccola donna bruna non c'era più? Non mi curai degli applausi, corsi nel mio camerino. Entrai in fretta per prendere il soprabito e scappare a casa di Antonietta, per sapere. Nel camerino, c'era la piccola donna bruna che piangeva ancora:
- Sono un'amica di Antonietta. - Disse soffiandosi il naso, come per mandare via le lacrime.
- Che cosa è accaduto? - Domandai con la morte nel cuore. - Perché non è venuta?
- Mario mi perdoni, se sono apportatrice di dolore, in un momento di gioia…
- Dolore, gioia?! Parli per favore, non vede come soffro? - Vedendo che non si decideva a parlare, la presi per le spalle e la scossi. - Mi dica tutto, la prego! Per favore!
- E' morta. - Disse in soffio.
- Morta!? - Non volevo credere. Era impossibile. Uno scherzo, una bruttissima burla!
- Sì. - Riprese la piccola donna bruna. - E' inaccettabile, lo so, ma è la verità. Attraversando la strada, un'auto... Stava venendo a teatro.

* * *

Seguì un periodo in cui vissi separato dal mondo e la piccola donna bruna non mi abbandonò un istante: mi fu sempre vicina.
Sono passati tanti anni oramai, nessuno ricorda più il mio nome. Il pianoforte a casa, è rimasto chiuso, da quella sera.
Oggi, Natale 1956, mi sono accorto di essere innamorato di mia moglie, la piccola donna bruna, la madre dei miei figli; sono innamorato e sento che, per la difesa di quest'amore e per l'avvenire dei nostri bambini, aprirò il pianoforte.
Sul piano, l'immagine di Antonietta mi sorride, come quando era in vita, mentre nella notte si spandono le note de «Il chiaro di luna» di Beethoven. Sono le mie mani che scorrono sulla tastiera.

     

Cena maledetta
Lo sentivo, lo presagivo che questa sera non dovevo andare all'appuntamento; che c'èra qualcosa nell'aria che non mi piaceva! Intanto eccomi qui, braccato come un cane rognoso. Ah, maledetta Carmencita! Era tutto un tranello, il tuo amore. Ti faceva gola la mia taglia, ma hai fatto male i tuoi calcoli, Pedro Ermendoza non si lascia prendere tanto facilmente. "Sangre y muerte!" prima di morire, ne porterò parecchi al "Creador" e prima fra tutti, sarai tu, strega! - Grignò tra i denti.
Così dicendo si arrampicò su di un albero che toccava la veranda della sua enamorada. Ella era davanti allo specchio e si pavoneggiava, sfoggiando l'ultimo regalo di Pedro, pensando tra sé: "Che stupido!"
Non poté pensare altro perché nel grande specchio apparve l'atletica sagoma di Pedro che impugnava una grossa pistola e la guardava minaccioso. Carmencita si turbò, ma senza parere impaurita le corse incontro a braccia tese, scongiurandolo di fuggire.
- No. - Rispose con veemenza. - Pedro Ermendoza, il terrore di tutto il Mexico, non fugge di fronte al pericolo, anche se architettato da mano femminile. E se è destino che debba morire questa sera "Por la Vergine do Pilar!" tu mi seguirai all'Inferno. - E facendo seguire il gesto alle parole, puntò rapido la pistola.
- Se credi di salvarti uccidendomi, uccidimi pure. - Disse la donna con il cuore in gola, alzando il tono della voce, tanto, che le guardie nella stanza attigua potessero udirla e corressero in suo aiuto.
Così fu. Un attimo! Dieci, dodici uomini piombarono alle spalle di Pedro che fu costretto a tentare il tutto per tutto, saltando dalla finestra. Precipitando a terra, gridò: "Adios Carmencita, ci rivedremo!" E scomparve nell'oscurità della notte, invano inseguito da un tambureggiare di spari.

* * *

Erano passati ormai due anni e Pedro s'èra portato quell'odio nel cuore, come un pugnale avvelenato. Una sera mentre cenava con la sua banda alla "Estancia de don Garcia" vide apparire Carmencita nello specchio di fronte a lui. Si voltò di colpo. Era proprio lei, accompagnata da un uomo. "Valgame Dios!" lo conosceva bene quel tizio! Sì, era don Alvaro Sevilla! Dunque i due complici erano assieme?! La vendetta sarebbe stata completa. Masticando amaro, brontolò: "Cena maledetta, bene di vendetta!"
Attese che i due prendessero posto nel locale e che don Garcia portasse loro il pranzo, si alzò e si diresse deciso verso di loro, che non lo avevano, lì per lì, riconosciuto e con scherno sprezzante domandò:
- Permettono? No, donna Carmencita, non vi muovete! - Aggiunse, vedendo che la donna si stava alzando per scappare. - Non vi conviene! E voi, don Alvaro, usatemi la cortesia di darmi quel gingillo, che nelle vostre mani non sta troppo sicuro, potrebbero tremare e... "Adios Pedrito!" Non tentate colpi di testa - rilevò truce - perché questi uomini che vedete sono i miei "gringos". Dunque, vi dicevo. - Parlava con voce tagliente come lama di rasoio. Ogni suono che usciva dalla sua bocca era doccia gelata per i due malcapitati. - Permettete? - E si sedette, senza che la coppia nemica reagisse. Poi pacatamente riprese. - Donna Carmencita, ricordate quella certa storia della cena maledetta? No? Ve la ricorderò io. Miguel, - chiamò - vieni qui.
Un uomo armato fino ai denti, dondolandosi come un pachiderma, si diresse verso di lui e chiese, col suo vocino stridente in una grossa mole.
- Che c'è capo?
- Ricordi, Miguel, la storia della cena maledetta?
- Si segñor!
- Raccontala alla señora.
Il bandito dandosi delle arie, si sedette all'altro lato del tavolo e narrò. Quando ebbe finito, Carmencita aveva perso tutta la sua spavalderia.
- Ma allora?... - Balbettò. - hai deciso, Pedro?
- Pedro Ermendoza non dimentica. L'ora è giunta. - Disse con un ghigno da far gelare, di più, il sangue ai due disgraziati. E proseguì implacabile. - Al contrario dell'eroina della storia che hai intesa, non morrai subito. A Pedro Ermendoza, il terrore del Mexico, non la si fa. Questa cena alla "Estancia de don Garcia" la ricorderai, anche all'Inferno.
- Ma io che c'entro? - Balbettò don Alvaro, bianco come la neve. - Io che c'entro?
- Vigliacco! - Ribadì Pedro, sferrandogli un ceffone. Poi emise un fischio convenzionale.
Carmencita e don Alvaro furono prelevati, issati sui cavalli e portati lontano.

* * *

Sotto la luna, nel grande bosco di "Armadillo" don Alvaro si contorceva tra le fiamme. Carmencita era stata condannata ad assistere, sul rogo non ancora acceso per lei.
La fedifraga non svenne, non chiese altro che una sigaretta e attese la sua fine.
E la sua fine venne! Finì fra le braccia di Pedro, ammirato dal suo coraggio, e l'indomani passò a far parte dell'imprendibile banda.
 

QUANDO L’AMORE DIVENTA POESIA

di Reno Bromuro

 

L'argomento che sto per scrivere è vasto e complesso: «Quando l’amore diventa poesia». Perciò è necessaria una breve premessa che indichi gli scopi ed intenzionalità di quanto andrò a considerare.

Inizio col domandarmi: che cos'è la poesia?

Usando concetti spesso giudicati semplici per l’apparente domesticità, come definire una costruzione in versi allacciandosi solo al campo estetico,dicendo semplicemente, «bella» o «brutta», oppure esaminandoli solo moralmente come «bene» o «male», è difficile e articolata poi quando si cerca di assegnare a tali lemmi una connotazione precisa.

Quindi non toccherò la definizione che ne dà il dizionario della lingua italiana, perché sarebbe solo sterile informazione, insufficiente e generica.

Invece può essere utile servirsi dello schema della comunicazione che propone Roman Jakobson nell'Essays de linguistique générale del 1963, dove afferma che: «un determinato autore, che chiama “Emittente” usa un canale ed una lingua detta codice per trattare, il “messaggio” in una qualsiasi forma, il contesto, in uno o più argomenti per lui importanti, che saranno letti ed acquisiti da uno o più lettori che chiama “ricevente” e che condividono la sua stessa lingua ed alcuni elementi fondamentali per comprendere ciò che egli ha scritto».

Lo schema visto sotto quest’aspetto, portato a funzione poetica e la poesia come atto comunicativo si realizzano esclusivamente quando ad un piano già predisposto corrisponde un altrettanto preciso piano formale.

In questo modo posso concludere affermando che: «la poesia è una forma creativa di comunicazione tra individui, lontani nello spazio o nel tempo, ma riavvicinati da problemi e contenuti che accentuano la forma e le regole della detta comunicazione e ne sono determinati a loro volta».

Forse la mia definizione pecca di genericità, ma se mi convinco che «l'uomo ha adottato la poesia come uno dei primi strumenti per comunicare in forma artistica e con scopi educativi», la genericità svanisce, ed io so che cosa la poesia m’insegna.

Ho già accennato al particolare vincolo che lega l’autore al lettore: il primo elabora e trasfonde stati d'animo ed emozioni personali in una forma poetica; il secondo, per ricevere insegnamento dalla poesia deve necessariamente, prima decifrare il messaggio poetico, entrando nella comprensione logica, estetica ed emotiva dell’autore, proprio come fa l’attore quando deve leggere al pubblico una poesia. E come per l’autore la risposta comunicativa chiude e riapre in senso opposto la comunicazione, all’attore deve avvenire la medesima cosa altrimenti l’ascoltatore per capire e apprendere ciò che la poesia vuole insegnare deve leggersela da sé.

Se ciò accadesse,la poesia perderebbe,la fruizione,e acquisterebbe le caratteristiche passive dell’oggetto della creazione, invece se l’attore compie il suo passo verso il momento creativo, la poesia si manifesterebbe come vero e proprio strumento educativo e, quindi vero soggetto creativo, dando al lettore: il punto dell’educazione linguistica e stilistica, dando modo al lettore di acquisire le regole fondamentali del fare poesia, il senso del suono e della grafia, facendo proprie le scelte formali operate dall'autore.

Questo passaggio che chiamerò «educazione alla creatività»:permette al lettore, distante dall'autore,di sviluppare tutta la propria capacità a recepire il messaggio.

Questo è certamente il momento più affascinante della poesia. Il lettore diventa a sua volta autore, la poesia si rigenera e rinasce da se stessa; il percorso ricomincia riproponendo infinitamente la poesia.

In uno spettacolo rappresentato nel giugno scorso, dal titolo «Libri in scena» presentato in due serate dal Teatro di Verdura di Milano ha avuto lo scopo che ho accennato sopra, «un verso per rivivere una passione o alcuni momenti di un amore; a questo hanno tenuto fede due grandi attori della scena italiana: Rossella Falk e Sandro Lombardi»

Il 26 giugno 2004 il teatro ha ospitato il miglior repertorio poetico, dal 1830 al 1985. Tra i poeti visitati alcuni tra i più famosi come Arthur Rimbaud, Emily Dickinson, Vladimir Vladimirovic Majakovskij e Guillaume Apollinaire.

Ma anche autori meno noti al pubblico come la russa Anna Achmatova che visse l’intera stagione dell’Avanguardia novecentesca, aderendo all’acmeismo, nel richiamo alla quotidianità della poesia e nella insistenza sul particolare intimo, minuto. Oppure come il Premio Nobel per la letteratura nel 1996, Wislawa Szymborska,di cui si ricorderà l'intensa«Amore a prima vista»e Robert Lowell. C’è stata anche la presenza d’autori italiani quali, Attilio Bertolucci, Piero Bigongiari e  Milo De Angelis. (dal volantino pubblicitario)

Aldo Carotenuto ne «Il gioco della passioni» afferma: «Se è vero che il cammino della  nostra esistenza si snoda lungo un continuum d’esperienze trasformatrici, fra loro quella amorosa rappresenta la più rivoluzionaria». 

Stendhal in «amore-passione». Ci avverte: «Non facciamoci ingannare dalle parole: rispetto agli amori figli del capriccio, del desiderio fisico e della vanità, l’amore-passione non è che un caso d’omonimia. Soprattutto per vanità – che è il sentimento opposto all’amore»

Queste due osservazioni mi permettono di entrare nel vivo del discorso che ho intrapreso con voi, grazie a due Poeti iscritti allo stesso mailing-list, i quali hanno scritto dei versi in cui «l’amore-passione si riconosce perché, quando ci prende, travolge contro tutti i nostri interessi. «L’innamorato, è uno sperduto: travolto dalla passione, non sa più come comportarsi: è dunque timido, patetico, e goffo, e da un punto di vista strettamente tecnico sbaglierà tutto. Allo stesso tempo è un temerario, e, del tutto incapace di calcolare ragionevolmente rischi e benefici, si avventura nel gravemente imponderabile, nell’improbabile: «L’amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andare a coglierlo sul ciglio di uno spaventoso baratro».

Ho preso ad esempio i versi che seguono perché sono tra i più belli e rappresentativi sia del secolo scorso sia del nuovo millennio, perché rispondono positivamente all’affermazione di Aldo Carotenuto.

Lascerò a voi la nuda lettura poiché ogni commento farebbe perdere la purezza e la bellezza di un amore che si trasforma in poesia pura, difficile da trovare nei tanti libri che infestano il mercato librario. Ovviamente non userò i loro nomi ma nomi inventati, saranno loro, se lo vorranno, a concedermi il permesso di farlo.

Il 21 maggio 2004 

LUI

         L’INGORGO

L'uccello stupendo
dalle piume d'oro
chiuso
nell'incanto
della gabbia preziosa
muore di nostalgia
per i cieli di cobalto
Così è dell'amore
imprigionato
dall'ingorgo dell'IO

LEI (dopo una settimana)

Si, lo tengo fermo
malgrado batta le sue ali
sempre più forte.
Mi mette ansia...
questo suo cinguettare
Il suo canto mi frantuma
giorno dopo giorno...
Ma non so ...
Non so che fare...
So solo che non lo posso...
...non lo posso liberare...

(E incalza):

Ingorgo dell'io non so...forse si...
Forse nell'illusione di proteggere l'altro da me...o di proteggermi dall'altro?
Boh! mi evito di soffrire? ...forse è paura di perdere...l'io ritrovato...
So che è da poco ...che sto in pace con me..
Forse è paura?
Si ...forse tutte queste cose insieme...
Voglio per una volta perdonarmi...
Non c'è la faccio ad aprirmi di più...
Vedo che c'è dentro di me una spinta vitale, c'è amore,
e lo sento cantare dentro, me lo sento battere le ali con energia.
Per ora voglio essere egoista me lo voglio guardare
...ancora... voglio accettarmi così...così indecisa ..insicura...
voglio accettare questa paura di amare di nuovo...
voglio accettare...tutto questo...mio egoismo.

LEI (Il 2 giugno con in sottofondo la bellissima musica di Modugno: «Tu si’ ‘na cosa grande» ritorna al tema originario):

ORA SONO LEGGERA…
Io ora sono lo scompiglio
che genera vento.
Sono la delicatezza
che s'aggira leggera
come l'aria...
Io ora sono quel movimento
sinuoso di papaveri rossi.

Io me lo dico...da sola
sono il mio tormento.
Io sono quella che vedi ....
nella fragilità dei petali
mi riconosco.

Io tingo di rosso le mie mani
quando t'accarezzo...
E si fa serietà in me il
tuo silenzio...
E troppo tardi forse...

E finalmente cammino
sicura...
mi faccio papavero in te
leggera...
faccio passi sinuosi
nel tuo cuore stanco...


LUI (commenta)
 
«...belli e pieni di vita - di fantasia leggerezza e forza - questi tuoi versi... scopri la fonte meravigliosa!»

LEI (trasognata):
«Grazie, per questa tua lettura...
Dove sta la fonte meravigliosa?»

LUI (Il 13 giugno confessa):
«...Era un’emozione inconsueta, ieri sera,  di mestizia e di bellezza, quel cielo era tutto in me..
Lo smisurato cielo
 ha il colore
del piombo.
Ne ha pure il peso stasera.
La luce diffusa del tramonto
effonde  toni di rosa - mai visti
- d'altri mondi,   e sconosciuti.
Ventila aria fresca sulla pelle
dalla finestra
aperta sull'infinito.
Bellezza - e 
inquietudine insieme,
Tristezza e grazia intrecciate
come se
con una mano
io toccassi terra
con l'altra,  lo smisurato cielo.

LEI (sempre più sognante):

«Ti ho visto con le braccia aperte come un bambino aggirarti in una stanza. Ed anche il quadro di Magritte... è veramente centrato... A volte è facile crearsi un proprio cielo... ma una mano deve stare sempre a terra... ancorata alla realtà...» (Dopo dieci giorni LEI riprende la schermaglia amorosa):

Prendetevela voi!
questa profondità.

E da sopra vomito mare.

Prendetevela voi !
questa sensazione
d'incostante infinito.

E dal basso perdo aria.

Prendetelo voi
questo specchietto.
Guardatevi dentro!
Io, ne ho abbastanza...
 
Fatevi a pezzi.

LEI
(il 29 giugno continua, con una tristezza che sembra svuotare l’anima di ogni volontà. Infatti la poesia è accompagnata dall’immagine di una donna con una bottiglia in una mano il bicchiere nell’altra con lo sguardo perduto nel vuoto):

Non so come
mi sento forte...
Non so ma è strano...
Sento la voglia di fare ordine.
Di vedere pulito.
Sento una strana voglia
una pazza voglia, di volermi bene.

(Sempre nello stesso giorno ma un solo minuto dopo):

Forse quando si è felici
non bisogna scrivere...
Scrivere di un momento felice
quanto è difficile.
Per me è difficilissimo
So solo che mi vengono
dei labbroni tremuli..
sembro una bambina...
L'emozione sale, sale ...
sale tutta sul viso...
mi trasfigura, il rossore.
So solo che...
Sono poco abituata alla felicità
che, già essere senza dolore
mi spaventa...
E ci provo con tutta me stessa
ad allontanare questi momenti.
Divento così brutta ed assilante
quasi spero così...di farle paura...
... di cacciarla via...

(… e dopo otto minuti circa):

Sto bene non ho bisogno di niente.
Perché ho la mia fantasia.
Ed ho deciso che voglio volare.
Si! oggi volo, volo via...
Finche c'è un briciolo di vita
respirerò per te amica cara.
con la tua stessa grinta, la tua energia.
Voglio prendere ancora più coscienza
di questa mia realtà.
Voglio guidare la mia barca..
senza farmi illusioni di sfuggire al dolore.

(Ma alle 21,00 quando la città dorme):

Forse è tutta colpa di Roma
...città aperta.
Forse è colpa di questo caldo
che costringe ad aprire le finestre
Forse è colpa dell'estate
di queste giornate...
Forse è colpa mia
forse è colpa sua.

Si, amarsi...
ma perché...
Perché? lo sento un reato?

(Alle 23,00 del giorno successivo, il 30 giugno 2004)

Non vederti mi fa sentire
Mi fa sentire di più...
Ha preso il comando la pelle.
E lei ti sente, ti vuole.
Ti chiama a pulsazioni rapide.
Sposta i lenzuoli.
L'essenziale è invisibile agli occhi.
E mi copro, ti copro, sparisco...
al mio stesso pudore.
Sparisce anche l'oggetto
del mio desiderio.
E perde ogni dignità, la bocca
che bagna il telo....

LUI (La notte del 30 giugno si guarda la mano e scrive):

Goccia del tuo sangue
sulla mia mano.

Colore sostanza rossa
della tua vita
sulla mia mano.

Frammento d'universo.
Stupita meraviglia
dell'amore di dio in me.

LEI (Alle ore 22,00 del 1° luglio costata):

Senza quella goccia
il mare ne sentirà l'assenza.
Ma date il sangue mio
a chi mi vuole bene.
Solida goccia
ora va ...va via...
e scende un'altra goccia...

Che fa di me un bracciale.
Bracciale di corallo.

(Il mattino dopo presto, alle ore 9,00, implora: «Portami con te»)

Sono sicura che senza
quella goccia
Il mare sentirà l'assenza.

Solida la goccia
e sento che va via...
e scende un'altra goccia.

Che fa di me un bracciale.
Bracciale di corallo.

In questo addio
ti prego...
portalo con te...


(Dopo cinque giorno ancora alle 17,05 esplode: «Non ne posso più»)

Non ne posso più
di questo infinito...
e i miei occhi
respingono il mare.
Non ne posso più
d'emozionarmi
senza fondo.

Non voglio più sentire così....

In lontananza
il battito, di un tamburo
mi richiama alla terra, la mia.

Terra, certo e unico sostegno.
Mi distendo fiduciosa, nel finito.

M'appoggio
sull'unica madre
che sento amica.

(Alle 07,35 del mattino ritorna alla carica):

Quattro righe sopra al tutto.
Qua, dove tutto è armonia
Vieni qui, amore raggiungimi.

Ora, è come se stessi guardando
il mare da una terrazza...
E' assurdo vedo un mare
che non c'è....
Ad occhi chiusi lo sento
dentro me,
Sono io, il mare.
E mi accorgo di avere stasera
lo stesso sguardo della luna
nell'acqua argenteo e profondo...
Uno sguardo nuovo
che guarda lontano...verso terra.
E mi accorgo di essere già nel qui
solo quando tu da dietro dolcemente
poggi , sulle mie spalle
lo scialle della tenerezza.

Vieni qui, amore mio
Vieni, amore raggiungimi
qua, dove sono io
su questa terrazza.
Vieni qui, quattro righe
sopra al tutto.
dove tutto è armonia.
Vieni qui, amore raggiungimi...

(Il 22 luglio alle ore alle 09, 49 il preludio della decisione che si chiude con versi bellissimi nella loro completezza verbale e non solo; ma il contenuto fa accapponare la pelle e pensare a cose diverse, per fortuna che alle 09,29 del 25 ci raggiunge la lirica che chiude questa storia d’amore che può sembrare un gioco, invece è la metamorfosi dell’Amore che diventa Poesia, oppure, secondo i punti di vista, quando la Poesia diventa Amore).

Vieni qui, amore.
Raggiungimi qui, dove sono io.
Io vado avanti amore...
Vado lì, dove sai tu...
Vado al fiume, che fa aspro il mare.
Vado dove punge la luce rossa del tramonto.
Vado dove i cristalli di sale
tagliano a fette, l'onda su gli scogli

(Il 25 luglio alle 09,29) 

Io mi struggo amore
su questa distanza che lasci
e mi rannicchio come una rosa
senza sole, sul tuo odore
per non morire di nostalgia.

La tua rosa si strugge amore
su un orologio bambino
che sparpaglia petali,
e incurante fa cadere i minuti
trattenendo a se i riti.

Ed io vado avanti amore
E immagino di salvarmi....
infilando te come un cappotto di sole

«Infilando te come un cappotto di sole» quanti innamorati vorrebbero per se una frase simile: c’è da disciogliersi come ghiaccio al sole.

Vi ho presentato una storia che ha fatto dell’Amore la poesia più bella che essere umano abbia potuto scrivere dopo, naturalmente, «Il cantico dei Cantici», ma quelli sono versi dettati da Dio. Chi può affermare che anche i versi dei nostri due innamorati che hanno trasformato il loro amore in poesia non siano stati dettati da Dio?

Bibliografia

A. Tate, The Language of Poetry, Princeton, 1942; J.-P. Sartre, Qu'est-ce que la littérature?, in “Situations”, II, Parigi, 1948; M. Blanchot, L'Espace littéraire, Parigi, 1955; J. Press, The Fire and the Fountain. An Essay on Poetry, Londra, 1955; W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, Bari, 1964; P. P. Dallari, Che cos'è la poesia, Milano, 1990; M. Debrauwer, Sappho, Lovanio, 1942-43; C. M. Bowra, Greek Lyric Poetry, Oxford, 1961; G. Mascioni, Saffo di Lesbo, Milano, 1991.

Reno Bromuro



    

Gli echi s'incastrano con la storia
(
il mondo poetico di Franco Santamaria)

 

Franco Santamaria è nato a Tursi, in provincia di Matera. Nonostante sia vissuto spesso lontano dal luogo di nascita, è rimasto indissolubilmente legato alla sua terra, ritenendola il simbolo dell’annoso e grave malessere di tutto il mondo contadino, privo della necessaria forza ideale per il proprio riscatto.

Da Taranto, nel 1965 si è trasferito prima a Napoli e poi, nel 1990, ad Afragola. Ha insegnato Letteratura Italiana e Storia, per quindici anni, presso l’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Commerciali e Turistici.

Laureato in Lettere e Filosofia, abilitato nell’insegnamento di Letteratura Greca, Letteratura Latina, Letteratura Italiana e Storia, ha dedicato il suo tempo, oltre alla famiglia, alla scuola, realizzando con studenti e colleghi un magnifico rapporto d’amicizia, collaborazione e tensione per una didattica moderna e più vicina ai bisogni dei giovani.

Collabora a riviste letterarie, tra cui «Gradiva» di New York.

Ha pubblicato «Primo lievito» per i tipi della Gastaldi, Milano e «Storie di echi» Edizione Ferraro, Napoli.

Sono inedite, soprattutto per avversione alla cosiddetta «Mafia letteraria», le raccolte di poesie «La mia valle»,«A radici perdute» e «Pensieri nudi, o quasi». Inedita, per il medesimo motivo, è anche una raccolta di racconti, «Se la catena non si spezza».

In Internet, invece, è pubblicata «Parola e Immagine - Poesia e Pittura», opera unitaria, costituita da trentanove dipinti e dodici poesie, dimostrativa di una sensibilità artistica nella quale convivono, afferma l’autore, in perfetta simbiosi, «espressioni solo apparentemente diverse di comunicazione» quali la poesia e la pittura. L’esigenza di esprimere il proprio mondo interiore e la visione della vita anche con la pittura risale agli inizi degli anni Ottanta, collezionando una serie di grandi consensi in Mostre Personali e/o Collettive sia in Italia sia all'estero.

Mi sono occupato più di una volta di quest’artista poliedrico e sensibilissimo, per il modo di raccontare sia in pittura sia in poesia le radici della realtà del nostro caotico tempo. La sua però non è denuncia, come si potrebbe immaginare, bensì è una lunga ruga dell’anima che si estende per tutto il diametro terrestre.
Ma, finalmente, con la sua volontà inarrestabile che diventa forza imbattibile, è riuscito a dare alla luce, con la collaborazione della Joker, la raccolta «Echi ad incastro»

«Andiamo lungo un fiume
di acque lunari,
di ombre a specchio
senza dimensione e sangue,
senza spiagge e sentieri di terra promessa».
(pag.38)
Ricorda il Poeta. E se percorriamo una moderna autostrada, cercando «senza dimensioni di sangue, sentieri di terra promessa», di attraversare una zona montuosa, possiamo osservare un gran numero di gallerie, di ponti, di viadotti; immensi muraglioni che consolidano i fianchi dei monti, mentre i corsi d'acqua si intravedono a decine di metri sotto le immense arcate.
Non solo è mutato profondamente l'aspetto delle località, ma si è ampiamente trasformata la vita stessa degli uomini.
Santamaria ci propone di provare e spinge ad immaginare come sarebbe diversa la nostra vita quotidiana se dovessero cessare di funzionare le centrali di produzione di energia elettrica come se la nostra esistenza fosse «senza ricordi e misteri e ansie sopite».
Il Poeta amando la natura, ha visto che questa ha sofferto notevoli peggioramenti, con l'abbattimento di boschi e di foreste, per lasciare il posto alle costruzioni e alle strade. La flora e la fauna hanno subito danni irreparabili, con pericolose conseguenze sulla stessa vita umana. L'atmosfera e le acque sono divenute tossiche da fumi e sostanze, emesse da ciminiere e scarichi, dovute ai lavori industriali.
Per evitare questi non piccoli guai, l'opinione pubblica si è mossa e si stanno studiando soluzioni per evitare i danni dell'inquinamento. Perciò il Poeta è vigile e canta la sua rabbia, la sua impotenza di fronte allo sfacelo di questo cambiamento repentino che l’uomo affronta, quasi rassegnato, e lui lo sprona all’azione.
Nei prossimi anni si dovrebbero già avere i primi risultati positivi di questa lotta; e certamente non vedremo mai, «i cadaveri che navigano su tronchi di mimose, alla deriva». Altra meta da raggiungere, per far sì che il frutto del lavoro umano sia sempre più vantaggioso, consiste nel rendere meno carica di tensione l'attività degli uomini d'oggi.
Il Poeta sa che ogni epoca ha i suoi problemi. Quali sono quelli che travagliano la società attuale e quale di loro suscita, in particolare, il suo interesse.
Schiavitù, dittature, pestilenze, carestie, ingiustizia sociale e tante altre terribili calamità hanno colpito, in ogni tempo, specialmente in quest’ultimo periodo, popoli e paesi, coinvolgendo talvolta l'intera umanità. Proprio quest'ultimo problema ha attirato l’interesse del Santamaria e destato le più vive preoccupazioni.
L'aria che si respira, l'acqua che si beve, i cibi che s’ingeriscono sono dei pericoli, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, possono avere terribili conseguenze sulla nostra salute. Incominciamo dall'aria, l'elemento indispensabile in qualsiasi momento della nostra vita. In ogni atto di respirazione immettiamo nei polmoni una certa quantità di aria, di cui assorbiamo una parte d'ossigeno. Se l'aria che entra nei polmoni, oltre a contenere ossigeno e azoto, comprende gas velenosi, l’organismo può ricevere danni molto gravi. Più volte si è letto sui giornali dell'avvelenamento, quasi sempre seguito da morte, che colpisce chi rimane chiuso in un'autorimessa dove c'è un'automobile con il motore acceso. Nello spazio di poche decine di minuti l'aria diventa irrespirabile e chi non si rende conto del pericolo soccombe.
Il Poeta e Pittore Santamaria, ha sentito la necessità di parlare, di cantare, con parole e colori, per ricordare all’uomo che l’affermazione del valore della persona sia come la descrive già Emanuele Kant. È in lui infatti, afferma Laberthoinnière, che la filosofia diviene chiaramente poesia e ciò che essa può essere e ciò che deve essere: una dottrina del diritto e della giustizia e, quindi, un sistema di esseri e non di cose. E’ il Poeta colui che avverte gli avvenimenti, che l’uomo comune vede e si rende conto di non averlo ascoltato quando questi si sono verificati realmente.
L'uomo non è più un individuo, è una persona, e gli altri debbono rispettarlo, com'egli deve rispettare gli altri. Ciò significa guardare le cose «da dentro e non dal di fuori». Sennonché al di sopra della vita di giustizia, della vita razionale e della vita umana, vi è la vita divina. Già Platone aveva affermato che l'ideale della vita umana è un’imitazione della vita di Dio; ma per Laberthonnière è qualcosa di più è: «il possesso di Dio dall’amore». Se la giustizia è l'inizio della carità, in altro senso può anche affermarsi che la carità è il compimento della giustizia. «Sulle rive del Giordano s'è compiuta la giustizia» affermerà Blondel.
«Echi ad incastro» di Franco Santamaria non sono solo liriche, che affrontano lo sgretolarsi dei sentimenti e i precetti della storia; non è la prima volta che il Poeta grida il suo dolore contro uno stato di cose in cui primeggia la prepotenza dell’uno nei confronti di tutti.
Già parlando della sua Personale dove le immagini erano abbinate alle poesie, scrissi:
«La Poesia, il disegno, l’Arte in generale sul quale si medita è una specie di condensazione, una combinazione di molti simboli uniti in una forma generale. Nel corso della meditazione su queste parole, disegni, suoni, il significato dell'inerente simbolismo può divenire chiaro. Con la meditazione Mandala, il fine non è la produzione di vaste fantasie, ma piuttosto una meditazione vitale sul significato centrale del manufatto. Col tempo colui che medita è diretto a identificarsi psichicamente col simbolo e ad integrare il significato del simbolo con la sua vita psichica. Propriamente parlando, questi atti artistici non sono usati come una tecnica, ma mirano a promuovere il più alto sviluppo della personalità artistica e la sensazione che muoverà l’attenzione del lettore o visitatore. Un esempio di ciò che può essere esperimentato con la meditazione sull’Arte, si trova all'inizio del Faust di Goethe, dove Faust guarda il macrocosmo. Una forma di meditazione ancora più astratta è la «Meditazione sulla Parola» (quella che a noi interessa ora) diretta verso la scoperta dell’importanza umana. Santamaria si attiene al sano principio dell’uguaglianza dell'attività razionale e irrazionale durante il corso della meditazione. D'altro canto non si dovrebbe meditare su simboli, o parole che stimolano emozioni negative dannose».
Il tramonto lo vive nella sua fisicità, fino:
«A seminare il ricordo di te
come frammento nell’ansia dei miei fiumi».
(pag,23)

In un’altra raccolta aveva affermato:
«Allora passano di corsa
anche cavalli senza cavalieri e sterminati treni vuoti,
e vibrano  - come di giorno  -  certi suoni di organo,
atonali come bastone su maschera di alberi maceri».
E mentre inseguo i cavalli tenendo fissa l’immagine dell’«ansia dei fiumi» e «di alberi maceri», una voce calda e sensuale rompe il silenzio. Di scatto, mi volto e cancello con forza le immagini che inseguo e m’inseguono.
«Sulle opere, sia pittoriche sia poetiche, c’ è poco da dire perché parlano da sole. C’è da rilevare un pensiero che Vittorio Mazzone ebbe modo di esprimere durante una personale dell’amico Franco Santamaria,di cui ammiriamo le opere e festeggiamo perciò l’innovazione dell’arte: Arte di generi diversi che si completano in un amoroso connubio. Un pensiero di Mazzone, dicevo, che esprime e chiarifica la prima sensazione che ci afferra appena ci troviamo di fronte alle opere del Santamaria, «il profondo calore umano ti prende subito»; le immagini sono là, ferme, in un preciso momento della fantasia creativa, parlano da sole; da sole narrano il «Tormento lacerante» con una descrittività elementare e altamente sentita. Del loro valore, se ne parlava poc’anzi, non si discute, come non si discute il connubio complementare tra i due generi che vediamo per la prima volta credo, nella storia moderna delle personali. La tematica, pur essendo varia, non toglie niente alla suggestione che le immagini riescono a creare nella mente del visitatore, anche la stessa staticità delle immagini possiede un’attrazione palese: attrazione che fa sbocciare subito un feeling tra visitatore e autore sia con i versi viscerali e scevri da complicazioni intellettualistiche, sia con le immagini pur nella loro varietà, forse proprio per questo, ti rapiscono per ripassarti nella memoria i versi toccanti e realistici, in cui la metafora è puramente virtuale. Questo, volevo dire ve l’ho detto».

Mi riallaccio volutamente alla precedente raccolta «Storie di echi» perché gli echi sono sempre quelli che da fanciullo ascoltava ritornare «privo della necessaria forza ideale per il proprio riscatto».
Lì si legge:
«La terra conosce le sue morti:
dall'impurità degli odori e dei voli, neri
sui fiumi neri di schiuma;
dalla neve che si strugge in valanghe
allineando lame di granito
su buie depressioni;
dai lunghi cortei
in nero delle formiche verso città in rovina» (Da corpo di sconfitto guerriero)
qui leggiamo

«(…)
la morte
che ha passione e rabbia,
e diritto di vivere,
che avanza con il punteruolo
ficcato sulla fronte
nel fuoco delle barricate
di carta e dei lacrimogeni del vento» (pag. 17)

Ed ora sottolineo alcuni versi estrapolati sia dalla prima sia dalla seconda raccolta per formare quel quadro che chiamo connubio tra i ricordi della fanciullezza e l’attualità della maturità, notate come i versi s’incastrano gli uni agli altri e nel loro sventaglio d’immagini aprono i nostri cuori alla speranza:

«Sulla cima
di un calanco era la mia terra,
cullata da un guscio di fossile millenario».
*****
«Eden lontano - a cui la mia sofferenza tende
in rami di albero ferito, quando un uomo piange
in attesa di un messia». 

*****

«Nel fossile è la certezza del tempo
di aver fissato la falsa
immutabilità di un ordine diseguale
a sola esperienza della terra». 

*****

«Sì che s'aprono sentieri dove l'uomo coglie
da un fossile
un seme purificato e la luce
dolcemente carezza i morbidi seni di Gea».

*****

«Vorremmo ascoltare il suono di chitarra hawaiana
e in quell’eco
che modula fili di seta e di fuoco tiepido
risorgere
senza dolore e il pianto del neonato
gettato tra i rifiuti…»
(pag. 41)

*********************

«Ci sono vie e autostrade fra le nuvole non
a misura d'uomo, macabre
perché ad ogni fermata si levano e roteano
frammenti di pietre impazziti; perfino
i latrati sanno di terra,
quando la luna si dimezza
e scompare dietro corsie non più misteriose.

Qualcuno dirà che c'è dell'illogico
in tutto ciò e che i passi della grandine
non sono quelli dei guerrieri, anche se
affogano nidi o stracciano foglie condannate a finire»
.

*****

«Ma, resta il desiderio che non è più speranza
di scoprire i sentieri e le torri con le bandiere vittoriose;
il desiderio che non è più attesa
di osservare ad oriente il sole che sorge
dietro stilizzate ombre appena aleggianti per la brina
e di schiudere il mistero della sabbia che trattiene
il respiro del cielo fra le dune».
 

Come pittore ci troviamo al cospetto di un’artista che fonda il proprio assunto poetico su una realtà trasfigurata dalla sua personale visione del mondo e della vita con le sue angosce e i suoi timori.
Come Poeta, il protagonista vero di questa dolorosa storia perché convinto di essere rimasto solo a ricordare e soffrire, essendo creatura viva,vive nel rimpianto dei begli anni in cui la natura non aveva da lamentarsi perché tutto era sottomesso alla volontà della creazione: anni ormai tramontati senza speranza. Colpa del progresso? Ma senza progresso l’uomo diventerebbe una pianta sterile.
Gli echi si disincastrano con
una potenza, che va facendosi sempre più forte a mano a mano che i versi si sgranano e si ha davanti l’intera opera staccata in episodi, e poi uniti in un incastro che possiede la vitalità di un momento di grazia: dono speciale di Dio. La musica che Santamaria ha sprigionato in questi versi creando momenti indimenticabili,vivrà finché palpiterà nell'animo umano la passione per il bello e la commozione che esercita sempre sugli animi aperti alla bontà e all'amore.

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Non ho voluto leggere le altre recensioni perché tra me e Franco c’è un filo sottile che ci accomuna e c’elegge gemelli astrali: molte cose affrontate da lui sono le stesse che ho affrontato e sapere che c’è un altro me stesso che continua la lotta, denunciando le medesime cose, come: Fratellanza, Amore universale, Pace serena, il rifiorire della natura, il canto della terra e dei fiumi purificati dai radionuclidi e dall’inquinamento voluto dall’uomo e alla fame nel mondo che vede reclinare il capo di milioni di bambini per questa ragione, mi fa guardare al Sole con più serenità, basta un solo Poeta forte e deciso per cambiare il mondo.
Afferma De Sanctis che «Il Poeta deve essere immediato e sintetico come il popolo. L'opera d'arte è una struttura viva, perché vibrante della sensibilità dell'artista. La conoscenza artistica si differenzia nettamente dalla conoscenza filosofica perché non è logico-dialettica; si differenzia dalla conoscenza scientifica: la scienza analizza, la poesia intuisce. Diversa è la conoscenza del poeta da quella dello scienziato e del filosofo. Il chimico considera le cose nella vicenda dei loro elementi costitutivi, lo storico nei loro avvenimenti, attraverso le varie epoche di cui furono testimoni; il matematico nei loro rapporti numerici di peso e di misura; il filosofo disincarna il pensiero dalle contingenze spazio-temporali. Il poeta trasfonde la sua spiritualità nelle cose, materializza il suo pensiero di elementi caduchi e li trasfigura: egli ama questo suo mondo con la passione dell'amante, l'ama col sentore dell'infinito e dell'eterno. Il filosofo risale alle cause prime, alle ragioni ultime, si eleva verso la verità pura, il mistico verso la divinità; ma l'artista, grande sacrilego, dissolve la sua anima nelle cose, le scuote e le sublima con forza demiurgica, facendole vibrare di spiritualità: in lui si accumulano le aspirazioni, la storia di secoli, il dramma di generazioni; l'arte diviene voce ed espressione della storia, delle varie civiltà. Di qui la potenza emotiva e l'universalità dell'arte: vi è in lei una compenetrazione di tempi».
Benché l’arte voglia immagini ben definite, ciò che nasce dalla mente del poeta non appartiene più al paese, al tempo, ma è destinata a tutti i tempi, a tutte le genti: il soffio dell'immortalità lo investe per sempre. «Rimane soltanto il canto dei poeti» cantava Holderlin.
Santamaria sente condensare nella sua anima la cosmicità, perciò il particolare ch'egli rappresenta ha caratteri universali, pur essendo dettagliatamente definito e precisato. Apre gli occhi dentro e fuori di sé; quando il suo sguardo diviene oltremodo visivo, quando il suo udito si fa ultrasensibile tutto si anima intorno a lui. Alitano e traspirano le fronde, la foresta diviene divina, spessa e viva; ridono le vette dei monti nei pleniluni sereni; vegliano i cipressi sulle urne solitarie; si popolano di voci i silenzi; di ombre le solitudini.
Una serie di fugaci, intense estasi, rapiscono il poeta che diviene il «grande sacerdote dell'incosciente» - dice Novalis - «i soli veggenti» - asserisce Baudelaire  «l'inconoscibile» - afferma Rimbaud -. Platone celebra la poesia come potenza divina che passa travolgendo ed afferma che è data all'uomo per il potenziamento delle sue facoltà.
Galileo nel «Dialogo delle nuove scienze», l'ultima sua opera, parlando entusiasticamente delle sue esperienze e delle felici conclusioni scientifiche cui era arrivato, afferma che esse avrebbero poi dato, frutti meravigliosi per merito degli ingegni speculativi che si sarebbero impegnati a proseguire il lavoro. Prevedere il futuro, anticipare il progresso è qualità specifica del Genio, sia esso dote di un uomo o di un popolo.
Ma appunto perché il poeta precorre i tempi, senza volerlo - a volte volendolo espressamente va contro agli interessi di chi la tradizione ha favorito, mira a distruggere usi, abitudini, tendenze, diritti che gli anni e i secoli hanno fatto credere intangibili, e, chi si sente colpito in questi diritti, o danneggiato dalle nuove idee combatte l'audace che è sorto a predicare le novità; lo considera un rivoluzionario, un sovvertitore di leggi e di tradizioni sacre, assolute, necessarie perché tramandate, e sempre accettate, di padre in figlio. Socrate si sacrificò bevendo la cicuta, per l'affermazione della sua scienza. Socrate morì, ma il suo pensiero richiamò l'uomo allo studio dell'uomo e generò il pensiero di Platone, di Aristotele e di tutto il pensiero moderno. Cesare fu ucciso dai congiurati in nome dell’idea repubblicana e più vicino a noi Mazzini sentì il fermento di libertà che lavorava dentro le coscienze italiche: Luther King muore perché si avveri l'uguaglianza delle razze; Papa Giovanni XXIII, ci assicura che solo l'affratellamento universale e la pace nel mondo, può combattere la fame.
Indubbiamente il Poeta Franco Santamaria è l'interprete vero e più efficace del sentimento umano e le sue opere sono l'espressione più pura dell'attualità, come Virgilio è stato per la razza latina, Dante per il popolo italiano, Shakespeare per l'anima inglese e Goethe; ma questo emerge dai simboli enunciati in precedenza inserendo alcuni versi. Sono immagini, più che simboli che emergono, ma ciò non afferma che nei simboli aleggi il sentore del decadentismo, né nella raccolta si avverte l’affermazione e la chiusura in un aristocratico rifiuto oppure l'adesione letteraria a forme estetizzanti volte ad esplorare l'inconscio e il sogno. Spesso le due formule letterarie si confondono, come ho già accennato, ma si nota anche che il Santamaria si sente attratto dal simbolismo, com’è affascinato dall’immagine, come importanza storica nella concezione della poesia che divulga.
Piuttosto, dalla ricerca del simbolo scaturisce la ricerca di un linguaggio atto a tradurre una disposizione visionaria e onirica, che il Poeta insegue freneticamente e anche per questo in alcune liriche il ritmo si fa più estenuante. Franco Santamaria non intende il simbolo come metafora o allegoria, ma come mezzo per attingere direttamente, senza mediazioni logiche, l'Idea, l'Infinito, l'Assoluto. Il risultato è una poesia che, influenzerà certamente, gran parte della letteratura contemporanea. Il canto non è sgretolamento delle forme poetiche, ma il verso è sostituito spesso da una sorta di prosa poetica. Il discorso è logico comunicativo e totale.
«Echi ad incastro» è opera volutamente d’ardua lettura. D'altra parte tutta l’opera di Santamaria richiede dal lettore un atteggiamento di cautela e disponibilità; tentare di interpretare logicamente i rapporti tra le immagini, oltre ad essere difficile e spesso impossibile, perché fraintende l'aspetto centrale della sua poetica. La sua parabola poetica esercita una profonda influenza sulla poesia contemporanea, che pur non potendo ripetere e in un certo senso neppure proseguire la sua estrema esperienza, ne ha fatto propria la concezione della parola, finalmente libera dai vincoli logici e sintattici e restituita al suo ruolo evocativo e creatore. Il gusto per il non definito e per le sfumature, caratteristica principale della scrittura si traduce in una poetica che pone al centro l'esigenza della musicalità: tramite il ripudio dell'eloquenza, del tono declamatorio, la poesia aspira non a descrivere ma a suggerire, a dissolvere la realtà, in immagini sempre più vaghe, da qui il simbolismo di Santamaria. Ecco che in questo modo la poesia conduce di là dell’esperienza sensibile e coglie l'essenza profonda e nascosta delle cose. All'interno di questa poetica, che esprime evidentemente le esigenze del simbolismo, trova i suoi accenti più personali nella tonalità cromatica, della malinconia, dell'ambiguità.
L'ossessione del male, il mistero del male, la rivolta, la tentazione blasfema contro Dio e gli uomini realizzano una lirica oscillante fra storicità e tenerezza, furore e pietà. Bisogna riconoscere che la caratteristica più espressiva sta nel dominio dei mezzi espressivi, nella lucidità, perciò le immagini sono mescolate all'ironia e l'enfasi è smascherata dall'intervento dell'autore. La ricchezza delle metafore, l'arditezza delle immagini e il gioco straordinario per queste innumerevoli fonti letterarie sono riprese, ritagliate, ricopiate, parodiate, stravolte rendono gli «Echi ad incastro» un'opera di singolare modernità.
Oggi necessitiamo di un trascinatore di folle e Santamaria lo può diventare, basta dargli fiducia e incitarlo, perché come lui anche io come te:
«Sono triste e piango,
alla fame che fruga
fra i rifiuti,
ai rantoli degli alberi
sfruttati fino alla consumazione,
ai gemiti
graffiti nei cunicoli dei ciechi
sistemi».
(Echi ad incastro–Edizioni Joker)


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