Sopra un incontro erotico andato a monte nel 
         motel Paradiso di Forlì. 
         Fu a Forlì (chi mai si scorda!), 
         nella stanza di un motel, 
         che la corda tu tagliasti, 
         cara Amanda, sul più bel. 
          
         Via fuggisti con la scusa 
         che ci avevi gente a casa, 
         che non era buona cosa 
         di non farcisi trovar. 
          
         Ti pregavo: "Amanda mia, 
         se tu parti, che vai via, 
         che mi lasci qui soletto, 
         che farò sopra quel letto, 
         che farò senza di te? 
         Che farò coi due guanciali, 
         su quel lercio copriletto? 
         Mi ci faccio un bel balletto? 
         mi ci faccio il cataletto 
         dove poi mi genufletto 
         sul fantoccio che sei te? 
         Per la quale e per il come 
         non ci trovo ora una gnome, 
         ma però, mia cara Amanda,  
         questa si è massima santa: 
         chi ti incanta poi ti pianta! 
          
         Di rimando: "qui c'è il bar, 
         ci hai la tele dirimpetto, 
         bitter, coca, salatini 
         patatine e popcorn... 
         Puoi dormire difilato, 
         puoi tenerti poi quietato  
         con le soap e con i talk, 
         con le fiction e i tg, 
         o un catartico intervallo 
         ritagliarti acciambellato 
         nell'attesa dello sballo!" 
          
         "Non andar, caro mio bene, 
         qui mollandomi tapino. 
         Non ho sonno, e per la tele 
         mica son venuto qui; 
         qui non venni con la piena 
         né per coca e patatine, 
         bruscolini e salatini! 
         Qui ci venni, mia sirena 
         per un dolce tête-à-tête, 
         con rovente rendez-vous. 
         Niente meno e niente più! 
          
         Meglio, allora, più la Standa, 
         meglio più l'ipermercato, 
         meglio pur lo zoo col panda 
         o un museo del libro antico; 
         meglio starsene in veranda 
         col lettore, auricolato, 
         rimirare il cielo aprico; 
         farsi un po' di bricolage  
         nel rifugio del garage; 
         o in amaca, sfaccendato, 
         contemplare il pergolato, 
         con sua pigna maturanda. 
         Per il come e per la quale, 
         questo è tutto, cara Amanda!". 
          
         "Vado, pranzo, poi ritorno, 
         me li levo già di torno, 
         vedrai, caro, lì per lì. 
         Me la cavo in un sol giorno. 
         Corro. Addio. Tu aspetta e spera, 
         senza starmi più così". 
          
         All'orlo, allora, della sua mini- 
         gonna mi abbranco, mi sbianco, 
         mi vedo già supino allo spedale; 
         mi prostro a lei, ginocchioni, 
         tremulo, colmo di ambascia 
         come fedele in un chiostro 
         presso l'icona speciale 
         di Santa Rita da Cascia, 
         e la prego: "mia donna fatale, 
         se fuggi, allora a che vale 
         che siamo venuti fin qui? 
          
         Te lo dico, e pur con gran rispetto:  
         mi ti volevo tutta spupazzare 
         fin quando mi veniva il mal di mare, 
         e tu ti spupazzavi tutto a me; 
         mi ti volevo tutta compulsare 
         dalla tua chioma bionda fino ai piè 
         sopra quel letto grande, ondoleggiante  
         come il tuo seno tremulo e perfetto; 
         mi ti volevo tutta consultare 
         come un codice raro, un palinsesto,  
         come un atlante, un'enciclopedia, 
         come preziosa mappa di tesoro, 
         io pellegrino per ogni tua via; 
         e tutta perlustrare: mari e monti, 
         e seni e golfi e valli e colli e stretti, 
         mia terra di vacanza e di ristoro. 
         Mi ti volevo tutta scandagliare, 
         tuo Marco Polo viaggiatore in China, 
         novo Milione sopra te dittare; 
         mi ti volevo circumnavigare 
         come De Gama l'Africa selvaggia 
         in cerca di ricchezze e droghe rare; 
         e sempre via mare andare a tondo 
         attorno a te, novello Magellano 
         che a giro corse l'universo mondo; 
         di te favoleggiar cose mirande 
         con cura grande ed incision perfetta  
         come a suo modo fece il Pigafetta; 
         e te cuccare ancora, poi mappanda, 
         come Cook la Nuova Zelanda; 
         le tue Colonne d'Ercole varcare 
         come Odisseo che vi levò la randa, 
         o tu che rechi il fato tuo nel nome, 
         fulgida Amanda! 
          
         Poi ti volevo tutta decorare 
         di petali di rose e di pansé 
         di fiordalisi, rosolacci e nonti- 
         scordardime. Ma tu ti rompi i ponti 
         e me mi pianti qui senza uno sbocco, 
         relitto, afflitto, misero pitocco, 
         mentre poc'anzi re! 
          
         Trattieniti, Amanda, e ti prometto 
         che, senza mai toccar cibo o bevanda, 
         noi ci godremo come viso a viso  
         le meraviglie d'ieri e del presente, 
         col paradiso in fine, indubbiamente, 
         così come dichiara adesso e qui 
         nel nome, assai preciso, 
         questo tale motel di Forlì". 
          
         Ma tu irritata a un tratto ti scrollasti 
         sfilandomi l'orlo dalla mano, 
         poi giunta sulla soglia pronunciasti: 
         "spupàzzati da solo, mio sovrano, 
         come ti aggrada, e tu ci hai la risorsa. 
         Esperto sei, ti penso, del monologo, 
         quando in difetto sei per fare un duetto. 
         A me si addice andare, come ho detto, 
         dagli ospiti che ci ho, mò mò, di corsa". 
          
         Fior di Romagna, Amanda benedetta, 
         così mi abbandonasti, senza epilogo 
         e senza neanche cominciare il prologo, 
         sul tuo ritorno a farmi vano astrologo, 
         talché ripiena fu la mia disdetta, 
         che il mondo ne grida ancor vendetta! 
          
         Tre giorni son rimasto solitario, 
         più mesto del passero eremita, 
         a Forlì, nel motel Paradiso,  
         guardando la tele, ingoiando  
         crocchette di riso e supplì; 
         come un derviscio in preghiera, 
         sul materasso ondulando, 
         ad acqua, del letto, che blando 
         fingeva una lenta crociera 
         tra i cieli di quel paradiso 
         sognato e perduto così 
         in un motel di Forlì.
      
         Monacazione repentina a Monza con abbandono di 
         moroso 
         Ti ricordi quando a Monza, 
         con la moto nella mota 
         volesti farti monaca? 
         Fu allora che ti dissi:  
         "ci fai o ci sei gonza? 
         Magari fatti bonza, 
         o pigliati una sbronza!" 
         Ma tu restavi immota 
         come a te stessa ignota, 
         con anima devota, 
         come chi fissa e ponza 
         la mota in moto a Monza. 
          
         Poi mi dicesti a ruota 
         lisciandoti una gota: 
         "ormai sono vocata, 
         questa è la mia fermata. 
         Sono una trota all'amo, 
         su su, non farmi il gramo, 
         niente più bramo ormai 
         che monacarmi qui". 
          
         Fu allora che sentii calda la traccia 
         di un pianto furtivo lungo il viso 
         e accanto me la strinsi in quell'incanto. 
         Vedevo dalla moto la mia faccia 
         come affondare in quella scura mota; 
         sentivo la mia testa rotolare 
         come una ruota in quella melma diaccia. 
         Le dissi ancora: "pensaci, Veronica, 
         magari fai la sarta, l'entraineuse,  
         l'elettricista, la parlamentare, 
         o la bagnina, oppure la sciampista... 
         Ma monica! Una cosa cosi trista..." 
          
         Mi prese le due mani 
         come per farmi cuore, 
         sbronza, però d'ardore 
         per Dio nostro Signore. 
         "Tu cercati - mi disse -,  
         cercati un altro amore 
         che sia di me migliore. 
         Quello mio vero è nato 
         per caso su una moto 
         da questo limo beato". 
         Discese e sparve, eterea, 
         seguendo un colonnato... 
          
         E adesso che ci faccio 
         su questa moto a Monza? 
         Con neve, pioggia e grandine, 
         da allora è qui che giaccio, 
         la faccia tra le mani, 
         il cuore in quella mota, 
         perduto ogni domani. 
         Ma a casa non ci torno 
         senza la mia Veronica, 
         che mi sparì di torno 
         quel dì per farsi monica, 
         e mi ammollò così. 
         
      
         
      
         Congedo 
         Dato che il mondo è fatto a scale,  
         (e chi le scende e chi invece le sale), 
         e chi monta e chi smonta, e chi vede  
         e chi passa, e chi piglia e chi lascia  
                             
         (e inoltre è vario,  
         come sentenzia l'altro detto), 
         a te che sei la prediletta mia,  
         tutto ti lascio e vado via, chiquita.  
          
         Ti lascio i marabù, le penne a fera,  
         il pesce cane, il gatto col Bagatto, 
         gli hot dog, il due di spade, gli alambicchi,  
         le rose, le corride, la spirale,  
         gli onischi, le ammoniti, gli specilli, 
         i dumi, i duomi, il dòmino, il domani… 
          
         Ti lascio Sorrento e Marechiaro  
         (e una voce che canta: Ohi Marì), 
         le ortiche, il salnitro, il curaro; 
         ti lascio Capri ed Ischia, 'a fenestella,  
         e uno scugnizzo che saltella e fischia:  
                             
         Oi stella stella… 
          
         e l'Epomeo con Procida ti lascio, 
         Nisida, con rezze e con lampare 
         e Piedigrotta, i capperi, il Vesuvio, 
         Coroglio,Tragara, e un mandolino 
         che piange nascosto nella notte: 
                        
             Nun ghi vicino… 
          
         e un alito ti lascio, mia nennella 
         di neve e di limoni, due tornesi, 
         la nèpeta e la menta sui balconi, 
         le spingole francesi, i faraglioni, 
         l'origano, la Grotta, la cannella, 
         le gelse more, vongole e forcine 
          
         con questo mare verde senza fine. 
          
         Ti lascio l'aspirina e gli aquiloni, 
         i mocassini, i moduli, le more, 
         i càntari, i citofoni, i paguri, 
         la ceralacca, i bisturi, le trine, 
         il Tommaseo-Bellini, il lago d'Orta, 
         le ruspe, i caducei, le blatte, il tango 
          
         e la mia mano, la mia mano morta. 
          
         Ti lascio a te la pece con la pace,  
         i panda, le granate, il carovita,  
         le preci, i proci, i bronzi di Riace, 
         i doppi ziti, le viti… la vita; 
         e i timbri, il salnitro, i basilischi,  
         le lobbie, le sinopie, l'acquaragia,  
         le pipe, le forbici, i flabelli, 
         le lime, i pennelli, le sibille,  
         la canfora, i fosfeni, le foreste, 
         i dischi dei Platters e le meste 
                         
         mie glauche pupille… 
          
         Ti lascio il basilischi, le autostrade, 
         gli arazzi, i fusibili, i batraci,  
         gli ottoni, gli ottani, le dentiere, 
         i lecca-lecca, le forche e il ricordo 
                         
         delle mie chiome nere. 
          
         Le mitrie poi ti lascio con le renne,  
         i violini tzigani, l'amor de lohn,  
         lo spleen ed il phon, le crociere, 
         i long drink e le viole, i pellicani, 
         lo zolfo, il ready made, i sette nani, 
         i sexy-shop, il new deal, le voliere,  
         il radicchio, le banche, lo shaker, 
                            
         il meccano, il fox-trot. 
          
         Ti lascio ancora me che ormai ti lascio 
         e me mi lascio pure mia chiquita. 
         E qui mi sottoscrivo con l'impronta 
         (tienila come mio pegno finale) 
                           
         delle mie cinque dita.   
          
  Ballata dal del tempo 
  Il tempo, intanto, indifferente va.  
  C'è chi oggi cade e chi domani  
  cadrà.  
  Ma che fa (mentre il tempo che viene  
  già va)?  
  Dopo il giorno viene la sera,  
  dopo l'inverno la primavera.  
  Ti volti un po' qua, ti giri un po' là:  
   
  già è scesa la notte e la-riu-là.  
  Sogni, cavalli, dame, fortune,  
  niente e nessuno dal tempo è immune.  
  Pianti, speranze, i no come i sì  
  sfumano in niente alla fine del dì.  
  Tutto già corre alla fossa comune,  
   
  signore e signori, e la-riu-lì. 
  Regge, castelli, mode, festini, 
  pianti e stornelli di mandolini, 
  sussurri e grida, voci di notte, 
  presto nel niente scendono a frotte. 
  Vani i singulti con i desiri, 
   
  fatue le veglie con i sospiri. 
  Palpiti, attese, fole e mattane 
  mietono rapide falci e frullane. 
  Tutte le cose quaggiù son vane 
  larve che migrano in carovane: 
  calano a tondo nello sprofondo, 
   
  ché tale è il mondo da quando è mondo. 
  A dirla con parole ancor più piane, 
  da trivio sì, ma certo non ruffiane: 
  tutto in un amen se ne va a puttane. 
  Ma non vi dogliate, signore e signori, 
  ché, come ben si dice, in alto i cuori! 
   
  E in alto, ancora, ciò che più vi pare, 
  se breve è l'ora che s'ha qui a sostare. 
  Prima di uscirne con la testa rotta, 
  facciamoci perciò una piedigrotta. 
  Soffi la tofa e gema il putipù, 
  chiamato per giunta caccavella; 
   
  e il tamburello frema accompagnando 
  la tarantella al ritmo dei sonagli. 
  Triccheballache fino in cielo scagli 
  suoi secchi colpi naccherando l'aria, 
  tritandola dentro i suoi pestelli. 
  Scetavaiasse, ruvido violino, 
   
  i suoi sonagli mesca al tamburello 
  tra assaggi di torroni e casatielli, 
  migliacci, mustacciuoli e susamielli, 
  granite, antrite; e generoso vino 
  si versi copioso dalla botte 
  finché non giunga l'alba del mattino. 
   
  E tutto tace. Orsù, che si sbaracca! 
  Buonanotte al mondo, a chi lo prese 
  sempre in saccoccia e a chi si diede 
  alla bisboccia, al gioco ed agli amori. 
  Buonanotte ai suonati e ai suonatori. 
  Signore e signori, il tempo è scaduto: 
   
  chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. 
  Cala il sipario, scende la tela, 
  fischi ed applausi qui fan lo stesso 
  su questo muto palco dismesso, 
  sul vacuo palco di questa mela. 
  Finita è, signori, ormai la partita. 
   
  Lavoratori e non lavoratori, 
  di qui si smamma senza buonuscita 
  con una mano avanti ed una dietro, 
  qui non si sfoglia più la margherita, 
  qui si misura con un solo metro. 
  Avanti, in carrozza! Si parte, signori! 
   
  Il treno è diretto e senza motori, 
  senza binari né controllori. 
  Non ci si paga nemmeno il biglietto. 
  Tutto è gratuito il soggiorno, ma: viaggio 
  di sola andata e niente ritorno. 
  Basta, però, che quasi è fattogiorno! 
   
  Venere addio (con Bacco e con tabacco)! 
  Finita è la raccolta e chiuso è il sacco. 
  Addio gli amari come i dolci amori! 
   
  Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori! 
  Glauco Vale  |