Quando gli alberi erano miei fratelli
Un albero mi ha parlato
La forza dell’olivo (I)
Guardalo, questo olivo: così magro,
tenere le sue braccia, da fanciullo,
eppure salde, che sembrano tese
al cielo a tenerlo su, loro sole.
E le radici, con quale tenacia
avvinghiate alla roccia, che nemmeno
una piena del fiume, una burrasca
le disarcionerebbe dal terreno.
E il seme è duro, paziente, sopporta
gelate e siccità, con la fierezza
di un martire: lo sa, prima o poi il tempo
verrà di aprirsi, basta solo attendere.
Appare delicato, quasi fragile;
ma c’è una forza nascosta in ogni albero,
la stessa che nel grembo oscuro dorme
che genera i vulcani, i fortunali;
e una linfa indomabile attraversa
le sue vene e cavalca lungo il tronco:
quella che nutre anche i fiori d’argento
sparpagliati nei prati bui del cielo.
La forza dell’olivo (II)
Povero olivo, tutta questa notte
esposto alle ventate che battevano
il fianco della collina scoperto,
così rabbiose e aspre da strappare
la verde pelle di dosso alla terra;
eppure lui, così mite, è in realtà
un guerriero, e non cede, non demorde
da quell’impari lotta, anzi lo tempra
la sfida dell’autunno presagito
dai primi indizi di rovesci e brine,
e trova in sé la volontà e il vigore
per resistere a quell’accanimento
immotivato, ne regge gli assalti
in silenzio, senza recriminare
per una qualche ingiustizia subita,
senza chiedere al cielo un’elemosina
di pietà o comprensione; a volte trema,
forse ha paura, ma resiste, ha fede
che in fondo alle proprie buie radici
vi sia un sole che dorme e attende solo
di levarsi: lo sa, l’olivo, l’acqua
che attinge dalla zolla gonfia anche
le vene dei torrenti, si fa sangue
di nuvole e maree; una sola goccia
delle linfe che battono nel polso
di ogni suo ramo colma la lanterna
delle stelle, e di un olio la alimenta
che scintillando brucia senza estinguersi.
Il segreto degli alberi
Provo quasi per ogni albero invidia:
quanto per me è cecità, nebbia, enigma
è per un tiglio, come per gli steli
che popolano il prato più ordinario,
certezza innata, che non ha bisogno
di prove o spiegazioni, conoscenza
che serba in sé ogni povero cespuglio
che sull’orlo di una radura affacci,
ogni arbusto che provi ad ancorarsi
nella più angusta fessura tra i sassi,
ogni germoglio che le esili braccia
aggrappi con quanta forza ha ai riarsi
zigomi di una parete o sui fianchi
di una scogliera che digradi ripida
e quasi verticale, fino al mare;
e lo sanno le alghe che si lasciano
pettinare dalle correnti e in grembo
all’altalena delle onde si dondolano;
e nelle venature di ogni foglia
e sulle rughe dei tronchi, memoria
della nazione vegetale, è scritto
che ha tutto ciò che è verde sempre un’anima.
La grande anima
Noi e l’albero, così poco simili:
noi morsi dalla serpe delle ansie
a ogni fruscio sussultiamo a ogni ombra
che agiti i rami, e ci affanniamo in preda
alla febbre alla frenesia allo spasmo
delle brame, aneliamo a braccia tese,
ciechi, a un cielo di polvere; lui invece
non conosce paura o desiderio
e in una pace distante, difesa
dall’inganno delle passioni resta
a meditare in silenzio; e fedele
soltanto alla sua indole, incurante
delle stagioni, sicuro persevera
anche nelle più ostili condizioni
di siccità o di burrasca: lui stoico
gigante che fortifica il suo cuore
e affina la sua saggezza nel culto
di ciò che è vasto, solitario, libero;
fiero e modesto, maestro ma umile,
acconsentisse a dirci suoi adepti,
a eleggerci discepoli perché
dal suo esempio impariamo a non temere
se un addensarsi di nuvole annuncia
il temporale, a mantenerci fermi
di fronte a raffiche contrarie e a oltraggi
di grandine o di nevi, a non piegare
la fronte al cielo quando ci rivolge
il suo sguardo severo, a respirare
a un ritmo uguale e lento, a fare nostra
la sua costanza, la profondità
e la calma della sua grande anima,
almeno in parte: la forza che ha dentro,
il coraggio con cui senza tremare
ogni arbitrio dei venti e ogni rovescio
avverso della sorte accetta e affronta.
L’albero è mio maestro
Ne sa abbastanza più di noi un albero
su quanto l’orizzonte sia più ampio
del nostro sguardo, che a lui ci si accosta
umili, con ossequio, ci si inchina
come al cospetto di un re, gli si deve
deferenza perché la sua è una specie
più nobile più antica della nostra;
o sembra di vedere in lui un avo
millenario, un vegliardo venerando,
un saggio buono, un maestro mansueto,
che saprebbe, se solo ci parlasse
e assumesse di nuovo aspetto umano,
farci da guida, dirci come vivere
e tenerci per mano come un padre;
lo immaginiamo come un testimone
ma di poche parole, di un mistero
a cui non siamo ammessi: uno sciamano
reincarnato in un corpo vegetale,
un sacerdote, dalle verdi bende,
di un culto che ha nei prati le sue chiese,
i suoi iniziati in ogni filo d’erba.
È dagli alberi che anche noi potremmo
che significhi vivere imparare.
Bibbia di foglie
Pagine di un poema le vostre, alberi,
che la pioggia con le sue molte dita
ha diritto a sfiorare, ma non l’uomo,
parole che solo il vento conosce
e sfogliando libri di foglie legge
e a memoria ripete e poi disperde,
rune scolpite nei tronchi, parabole
inaccesse se non alle sibille
che in pepli d’ali e piume profetizzano,
saghe di cui è depositario il bosco,
favole che potrebbero narrarci
i rami se la lingua ne intendessimo,
intrico delle labbra vegetali
che balbettano una rivelazione
appena udibile, su noi e sul cosmo:
rotoli sigillati, ancora intatti,
codici d’erba e pietra d’acque e nuvole,
papiri solo da aprire, ancestrali.
L’albero è mio maestro
Pensieri su di un mandorlo
Timido e insieme vanitoso, il mandorlo:
ha un portamento quasi femminile
e forse fu una Dea in un’altra vita,
e anche se oggi non se ne ricorda
ha mantenuto i tratti delicati
della snella figura, e non ha perso
affatto quel contegno aristocratico
che ostenta nella preziosa eleganza
e nella noncuranza con cui osserva
intorno venti e stagioni trascorrergli;
è una regina, il suo tempo è marzo,
quando indossa il suo abito nuziale
per lo sposo che viene con le piogge,
e si agghinda di fiocchi bianchi i riccioli,
e un carillon, proprio dietro il suo orecchio,
avvisa che hanno messo casa i passeri;
è una bambina, vive nella grazia
che accomuna tutte le cose sacre
e pure della terra, che hanno in merito
all’immortalità, a che cosa sia
la vera beatitudine, nozioni
per noi ingenue o, chissà, troppo profonde
perché riusciamo a prenderle sul serio:
le acque dalla risata scherzosa,
le buffe nuvole e la docile erba,
le chiocciole e gli insetti, e i tanti piccoli
inquilini che fanno il nido o giocano
sulla schiena di ogni albero, e non sanno
nulla dell’uomo e neanche si curano
delle misere angosce del suo cuore.
Insegnamento del salice
Di tutti gli alberi il più saggio è il salice,
dal corpo così esile, cedevole
alle correnti, lui che ha rinunciato
a combattere, lui che anziché opporvisi
la corsa delle acque la asseconda:
solo così non ne verrà travolto;
mite maestro, ha compreso che è
nella resa il segreto della forza
e che all’infuori del capitolare
non esiste vittoria. Imita il salice,
quando la piena monta e si accanisce,
pensa a quanto in realtà tenaci e salde
siano le sue radici, che difendono
l’orlo scosceso di un’ansa fangosa
del fiume che non cessa mai di scorrere,
anche se così sottili a vederle,
quasi indifese, che un’ondata appena
più alta basterebbe, in apparenza,
a strapparle via – e invece esse resistono.
La sapienza dell’albero
Non lo sa l’uomo ma lo sanno gli alberi,
e le acque profonde che ne nutrono
le radici, e gli uccelli che ne abitano
il fogliame, e le nuvole in corteo
che oltre le loro spalle sfilano, e anche
le montagne e le galassie lo sanno:
ogni frammento della creazione
è unito agli altri in una trama armonica
e insieme ad essi compone un arazzo
nascosto eppure a un tempo manifesto,
un mandala che la complessità
del suo disegno, del suo intimo ordine
così semplice e insieme quasi arcano,
specchia nella squisita geometria
di un alveare o di un fiocco di neve,
nelle precise ellissi misurate
dalle inesauste vagabonde astrali
che incrociandosi come in una danza
coordinata nei vergini anni-luce
intessono una rosa di diamante,
nella perfetta struttura sottesa
a un cristallo di sale, a un minerale,
ad una ragnatela, alle spirali
concentriche che srotola il serpente
della Via Lattea, o che formano il guscio
degli ammoniti, ai petali disposti
sulla fronte di una magnolia a cingerla
di una corona, o ancora al dispiegarsi
dei rami e delle loro molte dita
che del cielo diversi punti toccano
e ad uno stesso tronco li congiungono,
figure di un vegetale zodiaco.
La compagnia dell’albero
I
Quali pensieri farà mai un albero?
Li tiene per sé, non ha a chi si fidi
di confidarli, e li coltiva a margine
di un viale per cui solo di rado
qualcuno passa, o in mezzo a una radura
in abbandono, invasa da rottami;
e immerso nel bagno d’oro del sole,
il corpo stanco steso nella gloria
dei lunghissimi pomeriggi estivi,
il bianco oceano a colmargli le palpebre,
egli studia la luce che si attenua
lenta con le ore, digradando in toni
dall’arancio al violetto, finché Sirio
gli appunta sulla spalla una minuscola
spilla d’argento, un tremolante stemma;
e mentre il mondo sprofonda nell’ombra,
può dedicarsi ai propri ozi, e starsene
raccolto, indisturbato, fino all’alba,
a speculare sulle gerarchie
siderali e sul moto circolare
delle sfere celesti, e a tempo perso
sfoglia il libro illustrato in cui è scritto
il firmamento, che uno stemma araldico
porta impresso, un’immagine miniata,
su ognuna delle sue infinite pagine;
e non sa nulla, e forse non si cura
degli uomini, simili agli insetti
che nel viluppo delle sue radici
ordiscono i loro infimi alveari,
dell’epopea che scrivono nel fango.
II
Parlami, albero, dimmi chi sei,
e di che enigmi teneri e solenni
si fa la tua mente verde custode;
che sogni concepisci, quale pena
quando viene la sera sembra scuotere
i tuoi rami, quale ansia li tormenta
come corpi tremanti; e quali mondi
di cui ignoriamo l’esistenza visiti
quando il soffio che sale da ponente
ti consegna le melodie e i profumi
di un luogo caro e mai dimenticato;
non temere, saprò esserti complice,
non renderò partecipe nessuno
se non il vento della confessione
che mi porta il brusio delle tue foglie;
e forse apparirà la solitudine
a entrambi dolce, se sediamo accanto
in silenzio su un prato: impareremo
ad amarla perfino, a preferirla
ad ogni compagnia che non sia quella
delle ombre dei rami e delle nuvole.
La via degli eremiti
La verde chiave
Di tutto l’arco degli affetti umani
hanno esperienza, fuorché delle brame;
non soggetti a una volontà, non soffrono
degli affanni che sconta ogni creatura
che del sangue conosca le tempeste;
e la loro monotona esistenza
consacrano alle disinteressate
gioie della contemplazione pura;
nessuna cosa cercano né fuggono,
bene e male non sono ai loro occhi
che simulacri, e non credono al tempo,
ma indifferenti lasciano che il sole
li estenui nella sua morsa o che il fulmine
li minacci e la grandine infierisca
a flagellarli, come non ne siano
neanche toccati, come se a subire
le asprezze dell’ambiente sia un altro essere
al posto loro, concentrati solo
a perseguire lo sforzo di un qualche
miraggio di ideale perfezione
che solo a loro, agli alberi, è concessa –
budda che forse un’illuminazione
da quel nirvana vegetale attingono;
e chissà che non abbiano scoperto
l’unica beatitudine possibile
su questa terra, la via per accedere
a quella pace di cui siamo tutti
perennemente e senza esito in cerca;
ma gelosi ne tengono per sé
la verde chiave, e al vento che li interroga
non dicono qual è e come trovarla,
né all’universo, che vorrebbe loro
somigliare e che invece si tormenta.
Misticismo degli alberi
I
Veggenti e asceti, meditano gli alberi
in disparte dal mondo, assorti scrutano
un qualche enigma da lungo irrisolto,
con gli occhi fissi notte e giorno al cielo:
occhi puri di astrologi, di magi,
di verdi sfingi, fissi sull’eterno
che in quelli delle stelle i propri specchia;
leggono forse i pensieri di Dio
o di Dio il volto in una nube scorgono,
o traggono pronostici, decifrano
rivelazioni intorno all’aldilà,
nella coreografia per noi casuale
e illeggibile che il tramonto inscena
sul palco dell’orizzonte, a suo estro.
II
Cenobiti in preghiera, a mani giunte
o spiegando le enormi braccia, invocano
dall’azzurro e dal suo labbro di pietra
risposte a un dubbio che i rami ne macera,
supplicano pietà dal firmamento,
scegliendo a loro eremo un costone
di rocce a picco, ma alla solitudine
di cui hanno bisogno basta appena
il bordo di un qualunque marciapiede
su cui siedono, mendicanti scalzi;
e astratti non si sa come dal traffico
che turbina loro intorno, anche se
immobili, piantati in terra, volano
con la mente, librandosi da fermi
su ali che hanno per piume ogni foglia
che i corpi ossuti ne adorni, e percorrono
verdi mondi, regioni siderali
e i segreti di spazio e tempo interrogano.
Accanto al fiume
Su una radura isolata, o in un’ansa
di questo fiume che i Celti credettero
sacro, al riparo dall’urlo attutito
della città, qui dove il vento bacia
i capelli dei pioppi quando si alza
e imita il lungo ansito di un mare
non visibile, che ha foglie e non onde,
troverò sempre asilo – ormeggio i passi
su una lingua di sabbia asciutta e fresca
e lì mi stendo, dove a me ben nota
una corte di alberi si leva
e m’offre con la sua mobile cupola
un nascondiglio complice alla vista
del mondo; e come un figlio che ritorni
da un vano errare alla casa del padre,
mi accoglie su un letto d’erba, in attesa
che il sole cali. Alla vostra oasi, alberi,
sosto con gli occhi socchiusi, e mi sento
come protetto, almeno per mezz’ora,
al sicuro da un certo inquisitore
che va frugando i miei pensieri e ha il compito
di consegnarmi prima o poi una carta
con sopra impressi i termini di quella
vecchia pendenza solo accantonata
ma non risolta, con cui farò i conti.
(Riva dell’Adige, estate 2022)
Il mio rifugio
Vengo a quest’angolo a me solo noto
dell’Adige, dove una città sorge
antica, verde, non da mano d’uomo
innalzata: e nell’ombra dei suoi rami
lavo il mio sangue stanco, non so più
quale fu la mia storia, non più mio
è il nome con cui il mondo mi chiamava,
e mi spoglio del volto che indossavo
in mezzo agli altri, come pelle morta;
e nient’altro che stendermi vorrei
sotto un salice, e attendere che il sonno
versato dalle cicale mi copra,
miele sonoro che assorda i ricordi;
e immergermi nel mormorio dell’acqua
che bacia i ciottoli senza svegliarli,
e con le sue molli onde ripete
che anche il dolore a questo fiume è simile
e il destino delle sue onde imita.
IN UNA PINETA, IN ESTATE
Mi sdraio sulle ginocchia dei pini:
versano l’ombra, premurosi sporgono
i rami folti, volti in cerchio affacciano
vigili a farmi la guardia nel sonno.
Li agita il vento e sembra che mi parlino;
pretoriani gentili, per lorica
hanno il fogliame e come lance i tronchi,
Cureti che scuotono al vento i sistri;
posso chiudere gli occhi, non ho più
da temere, finché le loro schiere
mi offriranno riparo, alzando un argine
tra me e ciò che era il mondo, e finché il sole
di tanto in tanto farà capolino
fra i loro elmi, a baciarmi la fronte.
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